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Francesco Petrarca
Il Canzoniere - Rerum vulgarium fragmenta - Canzonen, Sestinen, Balladen, Madrigale

Der Canzoniere wird oft als "Sonettzyklus" bezeichnet, was nicht ganz richtig ist. Sonette machen zwar den größten Teil der Texte aus, 317 von 366, doch immerhin 49 Texte sind von anderer Form, 29 Canzonen (mehrere längere Strophen mit gleicher Verszahl, Siebensilber und Elfsilber), 9 Sestinen (geprägt durch sechs sechsversige Strophen +), 7 Balladen (3 Strophen) und 4 Madrigale (3x3 Verse +). Ich habe sie hier zusammengefasst. Diese Texte werden seltener übersetzt als die Sonette, was teilweise an ihre Länge liegt, die nicht immer mit einem entsprechenden übersetzenswerten Gehalt korreliert. Die drei Canzonen auf Lauras Augen etwa (LXXI bis LXXIII) stellen die Geduld von Übersetzern und auch Lesern doch sehr auf die Probe. In der zweiten dieser Canzonen bekennt der Autor/das lyrische Ich: "Nè gia mai lingua umana/contar porìa quel che le due divine/luci sentir mi fanno". Das mag Rhetorik sein, man ist allerdings geneigt, dem Autor hier etwas erschöpft zuzustimmen. Auch ich biete hier keine Übersetzungen, sondern die freien bildlichen Interpretationen von Svenja Rehse. 

Die Kleinbuchstaben hinter den Zahlen markieren die Zählwortendung. "1a" bedeutet also "prima", "1o" verweist auf ein Maskulinum, als "primo".

Die Sonette finden Sie - teilweise mit Übersetzungen - hier:

Sonetti 1-70 (Canzoniere I-XCI - Herbst)
Sonetti 71-148 (Canzoniere XCII-CLXXXI - Winter)
Sonetti 149-232 (Canzoniere CLXXXII-CCLXXIII - Frühling)
Sonetti 233-317 (Canzoniere CCLXXIV-CCCLXVI - Sommer)


textarbeit: hartmut schönherr
bilder gemalt von: svenja rehse

XI
(Ballata 1a)


Lassare il velo o per sole o per ombra,
donna, non vi vid’io,
poi che in me conosceste il gran desio
ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra.

Mentr’io portava i be’ pensier celati,
ch’hanno la mente desïando morta,
vidivi di pietate ornare il volto;
ma poi ch’Amor di me vi fece accorta,
fuor i biondi capelli allor velati,
e l’amoroso sguardo in sè raccolto.

Quel ch’i’ più desïava in voi m’è tolto:
sì mi governa il velo
che per mia morte, ed al caldo ed al gielo,
de’ be’ vostr’occhi il dolce lume adombra.


Svenja Rehse:
              Schleier
  Lassare il velo o per sole o per ombra

XIV
(Ballata 2a)


Occhi miei lassi, mentre ch’io vi giro
nel bel viso di quella che v’ha morti,
pregovi, siate accorti,
chè già vi sfida Amore, ond’io sospiro.

Morte può chiuder sola a’ miei penseri
l’amoroso cammin che gli conduce
al dolce porto de la lor salute;
ma puossi a voi celar la vostra luce
per meno oggetto, perché meno interi
siete formati, e di minor virtute.

Però, dolenti, anzi che sian venute
l’ore del pianto, che son già vicine,
prendete or a la fine
breve conforto a sì lungo martiro.


Svenja Rehse:
              Nadelauge
breve conforto a sì lungo martiro

XXII
(Sestina 1a)


A qualunque animale alberga in terra,
se non se alquanti ch’hanno in odio il sole,
tempo da travagliare è quanto è ’l giorno;
ma poi che ’l ciel accende le sue stelle,
qual torna a casa e qual s’anida in selva
per aver posa almeno infin a l’alba.

Ed io, da che comincia la bella alba
a scuoter l’ombra intorno de la terra
svegliando gli animali in ogni selva,
non ò mai triegua di sospir’ col sole;
poi quand’io veggio fiammeggiar le stelle
vo lagrimando, e disïando il giorno.

Quando la sera scaccia il chiaro giorno,
e le tenebre nostre altrui fanno alba,
miro pensoso le crudeli stelle,
che m’hanno fatto di sensibil terra;
e maledico il dì ch’i’ vidi ’l sole,
e che mi fa in vista un uom nudrito in selva.

Non credo che pascesse mai per selva
sí aspra fera, o di nocte o di giorno,
come costei ch’i ’piango a l’ombra e al sole;
et non mi stancha primo sonno od alba:
ché, bench’i’ sia mortal corpo di terra,
lo mio fermo desir vien da le stelle.

Prima ch’i’ torni a voi, lucenti stelle,
o tomi[1] giú ne l’amorosa selva,
lassando il corpo che fia trita terra,
vedess’io in lei pietà, che ’n un sol giorno
può ristorar molt’anni, e ’nanzi l’alba
puommi arichir dal tramontar del sole.

Con lei foss’io da che si parte il sole,
et non ci vedess’altri che le stelle,
sol una nocte, et mai non fosse l’alba;
et non se transformasse in verde selva
per uscirmi di braccia, come il giorno
ch’Apollo la seguia qua giú per terra.

Ma io sarò sotterra in secca selva
e ’l giorno andrà pien di minute stelle
prima ch’a sí dolce alba arrivi il sole.

























Svenja Rehse:
              Nachttiere
  qual torna a casa e qual s’anida in selva

XXIII
(Canzone 1a)


Nel dolce tempo de la prima etade,
che nascer vide ed anchor quasi in erba
la fera voglia che per mio mal crebbe,
perché cantando il duol si disacerba,
canterò com’io vissi in libertade,
mentre Amor nel mio albergo a sdegno s’ebbe.
Poi seguirò sì come a lui ne ’ncrebbe
troppo altamente, e che di ciò m’avenne,
di ch’io son fatto a molta gente exempio:
benchè ’l mio duro scempio
sia scripto altrove, sì che mille penne
ne son già stanche, e quasi in ogni valle
rimbombi il suon de’ miei gravi sospiri,
ch’aquistan fede a la penosa vita.
E se qui la memoria non m’aita
come suol fare, iscùsilla i martiri,
ed un penser che solo angoscia dàlle,
tal ch’ad ogni altro fa voltar le spalle,
e mi face oblïar me stesso a forza:
ch' e' ten di me quel d’entro, ed io la scorza.

I’ dico che dal dí che ’l primo assalto
mi diede Amor, molt’anni eran passati,
sí ch’io cangiava il giovenil aspetto;
e d’intorno al mio cor pensier’ gelati
facto avean quasi adamantino smalto
ch’allentar non lassava il duro affetto.
Lagrima anchor non mi bagnava il petto
né rompea il sonno, et quel che in me non era,
mi pareva un miracolo in altrui.
Lasso, che son! che fui!
La vita el fin, e ’l dí loda la sera.
Ché sentendo il crudel di ch’io ragiono
infin allor percossa di suo strale
non essermi passato oltra la gonna,
prese in sua scorta una possente donna,
ver’ cui poco già mai mi valse o vale
ingegno, o forza, o dimandar perdono;
e i duo mi trasformaro in quel ch’i’ sono,
facendomi d’uom vivo un lauro verde,
che per fredda stagion foglia non perde.

Qual mi fec’io quando primer m’accorsi
de la trasfigurata mia persona,
e i capei vidi far di quella fronde
di che sperato avea già lor corona,
e i piedi in ch’io mi stetti, et mossi, et corsi,
com’ogni membro a l’anima risponde,
diventar due radici sovra l’onde
non di Peneo, ma d’un piú altero fiume,
e n’ duo rami mutarsi ambe le braccia!
Né meno anchor m’agghiaccia
l’esser coverto poi di bianche piume
allor che folminato et morto giacque
il mio sperar che tropp’alto montava:
ché perch’io non sapea dove né quando
me ’l ritrovasse, solo lagrimando
là ’ve tolto mi fu, dí e nocte andava,
ricercando dallato, et dentro a l’acque;
et già mai poi la mia lingua non tacque
mentre poteo del suo cader maligno:
ond’io presi col suon color d’un cigno.

Cosí lungo l’amate rive andai,
che volendo parlar, cantava sempre
mercé chiamando con estrania voce;
né mai in sí dolci o in sí soavi tempre
risonar seppi gli amorosi guai,
che ’l cor s’umilïasse aspro et feroce.
Qual fu a sentir? ché ’l ricordar mi coce:
ma molto piú di quel, che per inanzi
de la dolce et acerba mia nemica
è bisogno ch’io dica,
benché sia tal ch’ogni parlare avanzi.
Questa che col mirar gli animi fura,
m’aperse il petto, e ’l cor prese con mano,
dicendo a me: Di ciò non far parola.
Poi la rividi in altro habito sola,
tal ch’i’ non la conobbi, oh senso humano,
anzi le dissi ’l ver pien di paura;
ed ella ne l’usata sua figura
tosto tornando, fecemi, oimè lasso,
d’un quasi vivo et sbigottito sasso.

Ella parlava sí turbata in vista,
che tremar mi fea dentro a quella petra,
udendo: I’ non son forse chi tu credi.
E dicea meco: Se costei mi spetra,
nulla vita mi fia noiosa o trista;
a farmi lagrimar, signor mio, riedi.
Come non so: pur io mossi indi i piedi,
non altrui incolpando che me stesso,
mezzo tutto quel dí tra vivo et morto.
Ma perché ’l tempo è corto,
la penna al buon voler non pò gir presso:
onde piú cose ne la mente scritte
vo trapassando, et sol d’alcune parlo
che meraviglia fanno a chi l’ascolta.
Morte mi s’era intorno al cor avolta,
né tacendo potea di sua man trarlo,
o dar soccorso a le vertuti afflitte;
le vive voci m’erano interditte;
ond’io gridai con carta et con incostro:
Non son mio, no. S’io moro, il danno è vostro.

Ben mi credea dinanzi agli occhi suoi
d’indegno far cosí di mercé degno,
et questa spene m’avea fatto ardito:
ma talora humiltà spegne disdegno,
talor l’enfiamma; et ciò sepp’io da poi,
lunga stagion di tenebre vestito:
ch’a quei preghi il mio lume era sparito.
Ed io non ritrovando intorno intorno
ombra di lei, né pur de’ suoi piedi orma,
come huom che tra via dorma,
gittaimi stancho sovra l’erba un giorno.
Ivi accusando il fugitivo raggio,
a le lagrime triste allargai ’l freno,
et lasciaile cader come a lor parve;
né già mai neve sotto al sol disparve
com’io sentí’ me tutto venir meno,
et farmi una fontana a pie’ d’un faggio.
Gran tempo humido tenni quel vïaggio.
Chi udí mai d’uom vero nascer fonte?
E parlo cose manifeste et conte.

L’alma ch’è sol da Dio facta gentile,
ché già d’altrui non pò venir tal gratia,
simile al suo factor stato ritene:
però di perdonar mai non è sacia
a chi col core et col sembiante humile
dopo quantunque offese a mercé vène.
Et se contra suo stile ella sostene
d’esser molto pregata, in Lui si specchia,
et fal perché ’l peccar piú si pavente:
ché non ben si ripente
de l’un mal chi de l’altro s’apparecchia.
Poi che madonna da pietà commossa
degnò mirarme, et ricognovve et vide
gir di pari la pena col peccato,
benigna mi redusse al primo stato.
Ma nulla à ’l mondo in ch’uom saggio si fide:
ch’ancor poi ripregando, i nervi et l’ossa
mi volse in dura selce; et così scossa
voce rimasi de l’antiche some,
chiamando Morte, et lei sola per nome.

Spirto doglioso errante (mi rimembra)
per spelunche deserte et pellegrine,
piansi molt’anni il mio sfrenato ardire:
et anchor poi trovai di quel mal fine,
et ritornai ne le terrene membra,
credo per piú dolore ivi sentire.
I’ seguí’ tanto avanti il mio desire
ch’un dí cacciando sí com’io solea
mi mossi; e quella fera bella et cruda
in una fonte ignuda
si stava, quando ’l sol piú forte ardea.
Io, perché d’altra vista non m’appago,
stetti a mirarla: ond’ella ebbe vergogna;
et per farne vendetta, o per celarse,
l’acqua nel viso co le man’ mi sparse.
Vero dirò (forse e’ parrà menzogna)
ch’i’ sentí’ trarmi de la propria imago,
et in un cervo solitario et vago
di selva in selva ratto mi trasformo:
et anchor de’ miei can’ fuggo lo stormo.

Canzon, i’ non fu’ mai quel nuvol d’oro
che poi discese in pretïosa pioggia,
sí che ’l foco di Giove in parte spense;
ma fui ben fiamma ch’un bel guardo accense,
et fui l’uccel che piú per l’aere poggia,
alzando lei che ne’ miei detti honoro:
né per nova figura il primo alloro
seppi lassar, ché pur la sua dolce ombra
ogni men bel piacer del cor mi sgombra.
























































































































































Svenja Rehse:
              Herz
  Nel dolce tempo de la prima etade

XXVIII
(Canzone 2a)


O aspectata in ciel beata et bella
anima che di nostra humanitade
vestita vai, non come l’altre carca:
perché ti sian men dure omai le strade,
a Dio dilecta, obedïente ancella,
onde al suo regno di qua giú si varca,
ecco novellamente a la tua barca,
ch’al cieco mondo à già volte le spalle
per gir al miglior porto,
d’un vento occidental dolce conforto;
lo qual per mezzo questa oscura valle,
ove piangiamo il nostro et l’altrui torto,
la condurrà de’ lacci antichi sciolta,
per dritissimo calle,
al verace orïente ov’ella è volta.

Forse i devoti et gli amorosi preghi
et le lagrime sancte de’ mortali
son giunte inanzi a la pietà superna;
et forse non fur mai tante né tali
che per merito lor punto si pieghi
fuor de suo corso la giustitia eterna;
ma quel benigno re che ’l ciel governa
al sacro loco ove fo posto in croce
gli occhi per gratia gira,
onde nel petto al novo Karlo spira
la vendetta ch’a noi tardata nòce,
sí che molt’anni Europa ne sospira:
cosí soccorre a la sua amata sposa
tal che sol de la voce
fa tremar Babilonia, et star pensosa.

Chïunque alberga tra Garona e ’l monte
e ’ntra ’l Rodano e ’l Reno et l’onde salse
le ’nsegne cristianissime accompagna;
et a cui mai di vero pregio calse,
dal Pireneo a l’ultimo orizonte
con Aragon lassarà vòta Hispagna;
Inghilterra con l’isole che bagna
l’Occeano intra ’l Carro et le Colonne,
infin là dove sona
doctrina del sanctissimo Elicona,
varie di lingue et d’arme, et de le gonne,
a l’alta impresa caritate sprona.
Deh qual amor sí licito o sí degno,
qua’ figli mai, qua’ donne
furon materia a sí giusto disdegno?

Una parte del mondo è che si giace
mai sempre in ghiaccio et in gelate nevi
tutta lontana dal camin del sole:
là sotto i giorni nubilosi et brevi,
nemica naturalmente di pace,
nasce una gente a cui il morir non dole.
Questa se, piú devota che non sòle,
col tedesco furor la spada cigne,
turchi, arabi et caldei,
con tutti quei che speran nelli dèi
di qua dal mar che fa l’onde sanguigne,
quanto sian da prezzar, conoscer dêi:
popolo ignudo paventoso et lento,
che ferro mai non strigne,
ma tutt’i colpi suoi commette al vento.

Dunque ora è ’l tempo da ritrare il collo
dal giogo antico, et da squarciare il velo
ch’è stato avolto intorno agli occhi nostri,
et che ’l nobile ingegno che dal cielo
per gratia tien’ de l’immortale Apollo,
et l’eloquentia sua vertú qui mostri
or con la lingua, or co’laudati incostri:
perché d’Orpheo leggendo et d’Amphïone
se non ti meravigli,
assai men fia ch’Italia co’ suoi figli
si desti al suon del tuo chiaro sermone,
tanto che per Iesú la lancia pigli;
che s’al ver mira questa anticha madre,
in nulla sua tentione
fur mai cagion’ sí belle o sí leggiadre.

Tu ch’ài, per arricchir d’un bel thesauro,
volte l’antiche et le moderne carte,
volando al ciel colla terrena soma,
sai da l’imperio del figliuol de Marte
al grande Augusto che di verde lauro
tre volte trïumphando ornò la chioma,
ne l’altrui ingiurie del suo sangue Roma
spesse fïate quanto fu cortese:
et or perché non fia
cortese no, ma conoscente et pia
a vendicar le dispietate offese,
col figliuol glorïoso di Maria?
Che dunque la nemica parte spera
ne l’umane difese,
se Cristo sta da la contraria schiera?

Pon’ mente al temerario ardir di Xerse,
che fece per calcare i nostri liti
di novi ponti oltraggio a la marina;
et vedrai ne la morte de’ mariti
tutte vestite a brun le donne perse,
et tinto in rosso il mar di Salamina.
Et non pur questa misera rüina
del popol infelice d’orïente
victoria t’empromette,
ma Marathona, et le mortali strette
che difese il leon con poca gente,
et altre mille ch’ài ascoltate et lette:
perché inchinare a Dio molto convene
le ginocchia et la mente,
che gli anni tuoi riserva a tanto bene.

Tu vedrai Italia et l’onorata riva,
canzon, ch’agli occhi miei cela et contende
non mar, non poggio o fiume,
ma solo Amor che del suo altero lume
piú m’invaghisce dove piú m’incende:
né Natura può star contra’l costume.
Or movi, non smarrir l’altre compagne,
ché non pur sotto bende
alberga Amor, per cui si ride et piagne.




































































































Svenja Rehse:
              Kreuzzug
Una parte del mondo è che si giace

XXIX
(Canzone 3a)


Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi
non vestí donna unquancho
né d’òr capelli in bionda treccia attorse,
sí bella com’è questa che mi spoglia
d’arbitrio, et dal camin de libertade
seco mi tira, sí ch’io non sostegno
alcun giogo men grave.

Et se pur s’arma talor a dolersi
l’anima a cui vien mancho
consiglio, ove ’l martir l’adduce in forse,
rappella lei da la sfrenata voglia
súbita vista, ché del cor mi rade
ogni delira impresa, et ogni sdegno
fa ’l veder lei soave.

Di quanto per Amor già mai soffersi,
et aggio a soffrir ancho,
fin che mi sani ’l cor colei che ’l morse,
rubella di mercé, che pur l’envoglia,
vendetta fia, sol che contra Humiltade
Orgoglio et Ira il bel passo ond’io vegno
non chiuda et non inchiave.

Ma l’ora e ’l giorno ch’io le luci apersi
nel bel nero et nel biancho
che mi scacciâr di là dove Amor corse,
novella d’esta vita che m’ addoglia
furon radice, et quella in cui l’etade
nostra si mira, la qual piombo o legno
vedendo è chi non pave.

Lagrima dunque che dagli occhi versi
per quelle, che nel mancho
lato mi bagna chi primier s’accorse,
quadrella, dal voler mio non mi svoglia,
ché ’n giusta parte la sententia cade:
per lei sospira l’alma, et ella è degno
che le sue piaghe lave.

Da me son fatti i miei pensier’ diversi:
tal già, qual io mi stancho,
l’amata spada in se stessa contorse;
né quella prego che però mi scioglia,
ché men son dritte al ciel tutt’altre strade
et non s’aspira al glorïoso regno
certo in piú salda nave.

Benigne stelle che compagne fersi
al fortunato fianco
quando ’l bel parto giú nel mondo scórse!
ch’è stella in terra, et come in lauro foglia
conserva verde il pregio d’onestade,
ove non spira folgore, né indegno
vento mai che l’aggrave.

So io ben ch’a voler chiuder in versi
suo laudi, fôra stancho
chi piú degna la mano a scriver porse:
qual cella è di memoria in cui s’accoglia
quanta vede vertú, quanta beltade,
chi gli occhi mira d’ogni valor segno,
dolce del mio cor chiave?

Quanto il sol gira, Amor piú caro pegno,
donna, di voi non ave.














































Svenja Rehse:
              Stern
   Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi

XXX
(Sestina 2a)


Giovene donna sotto un verde lauro
vidi piú biancha et piú fredda che neve
non percossa dal sol molti et molt’anni;
e ’l suo parlare, e ’l bel viso, et le chiome
mi piacquen sí ch’i’ l’ò dinanzi agli occhi,
ed avrò sempre, ov’io sia, in poggio o ’n riva.

Allor saranno i miei pensier a riva
che foglia verde non si trovi in lauro;
quando avrò queto il core, asciutti gli occhi,
vedrem ghiacciare il foco, arder la neve:
non ò tanti capelli in queste chiome
quanti vorrei quel giorno attender anni.

Ma perché vola il tempo, et fuggon gli anni,
sí ch’a la morte in un punto s’arriva,
o colle brune o colle bianche chiome,
seguirò l’ombra di quel dolce lauro
per lo piú ardente sole et per la neve,
fin che l’ultimo dí chiuda quest’occhi.

Non fur già mai veduti sí begli occhi
o ne la nostra etade o ne’ prim’anni,
che mi struggon cosí come ’l sol neve;
onde procede lagrimosa riva
ch’Amor conduce a pie’ del duro lauro
ch’à i rami di diamante, et d’òr le chiome.

I’ temo di cangiar pria volto et chiome
che con vera pietà mi mostri gli occhi
l’idolo mio, scolpito in vivo lauro:
ché s’al contar non erro, oggi à sett’anni
che sospirando vo di riva in riva
la notte e ’l giorno, al caldo ed a la neve.

Dentro pur foco, et for candida neve,
sol con questi pensier’, con altre chiome,
sempre piangendo andrò per ogni riva,
per far forse pietà venir negli occhi
di tal che nascerà dopo mill’anni,
se tanto viver pò ben cólto lauro.

L’auro e i topacii al sol sopra la neve
vincon le bionde chiome presso agli occhi
che menan gli anni miei sí tosto a riva.
























Svenja Rehse:
              Goldhaar
Giovene donna sotto un verde lauro

XXXVII
(Canzone 4a)


Sí è debile il filo a cui s’attene
la gravosa mia vita
che, s’altri non l’aita,
ella fia tosto di suo corso a riva;
però che dopo l’empia dipartita
che dal dolce mio bene
feci, sol una spene
è stato infin a qui cagion ch’io viva,
dicendo: Perché priva
sia de l’amata vista,
mantienti, anima trista;
che sai s’a miglior tempo ancho ritorni
et a piú lieti giorni,
o se ’l perduto ben mai si racquista?
Questa speranza mi sostenne un tempo:
or vien mancando, et troppo in lei m’attempo.

Il tempo passa, et l’ore son sí pronte
a fornire il vïaggio,
ch’assai spacio non aggio
pur a pensar com’io corro a la morte:
a pena spunta in orïente un raggio
di sol, ch’a l’altro monte
de l’adverso orizonte
giunto il vedrai per vie lunghe et distorte.
Le vite son sí corte,
sí gravi i corpi et frali
degli uomini mortali,
che quando io mi ritrovo dal bel viso
cotanto esser diviso,
col desio non possendo mover l’ali,
poco m’avanza del conforto usato,
né so quant’io mi viva in questo stato.

Ogni loco m’atrista ov’io non veggio
quei begli occhi soavi
che portaron le chiavi
de’ miei dolci pensier’, mentre a Dio piacque;
et perché ’l duro exilio piú m’aggravi,
s’io dormo o vado o seggio,
altro già mai non cheggio,
et ciò ch’i’ vidi dopo lor mi spiacque.
Quante montagne et acque,
quanto mar, quanti fiumi
m’ascondon que’ duo lumi,
che quasi un bel sereno a mezzo ’l die
fer le tenebre mie,
a ciò che ’l rimembrar piú mi consumi,
et quanto era mia vita allor gioiosa
m’insegni la presente aspra et noiosa!

Lasso, se ragionando si rinfresca
quel’ardente desio
che nacque il giorno ch’io
lassai di me la miglior parte a dietro,
et s’Amor se ne va per lungo oblio,
chi mi conduce a l’ésca,
onde ’l mio dolor cresca?
Et perché pria tacendo non m’impetro?
Certo cristallo o vetro
non mostrò mai di fore
nascosto altro colore,
che l’alma sconsolata assai non mostri
piú chiari i pensier’ nostri,
et la fera dolcezza ch’è nel core,
per gli occhi che di sempre pianger vaghi
cercan dí et nocte pur chi glien’appaghi.

Novo piacer che negli umani ingegni
spesse volte si trova,
d’amar qual cosa nova
piú folta schiera di sospiri accoglia!
Et io son un di quei che ’l pianger giova;
et par ben ch’io m’ingegni
che di lagrime pregni
sien gli occhi miei sí come ’l cor di doglia;
et perché a·cciò m’invoglia
ragionar de’ begli occhi,
né cosa è che mi tocchi
o sentir mi si faccia cosí a dentro,
corro spesso, et rïentro,
colà donde piú largo il duol trabocchi,
et sien col cor punite ambe le luci,
ch’a la strada d’Amor mi furon duci.




Le treccie d’òr che devrien fare il sole
d’invidia molta ir pieno,
e ’l bel guardo sereno,
ove i raggi d’Amor sí caldi sono
che mi fanno anzi tempo venir meno,
et l’accorte parole,
rade nel mondo o sole,
che mi fer già di sé cortese dono,
mi son tolte; et perdono
piú lieve ogni altra offesa,
che l’essermi contesa
quella benigna angelica salute
che ’l mio cor a vertute
destar solea con una voglia accesa:
tal ch’io non penso udir cosa già mai
che mi conforte ad altro ch’a trar guai.

Et per pianger anchor con piú diletto,
le man’ bianche sottili
et le braccia gentili,
et gli atti suoi soavemente alteri,
e i dolci sdegni alteramente humili,
e ’l bel giovenil petto,
torre d’alto intellecto,
mi celan questi luoghi alpestri et feri;
et non so s’io mi speri
vederla anzi ch’io mora:
però ch’ad ora ad ora
s’erge la speme, et poi non sa star ferma,
ma ricadendo afferma
di mai non veder lei che ’l ciel honora,
ov’alberga Honestate et Cortesia,
et dov’io prego che ’l mio albergo sia.

Canzon, s’al dolce loco
la donna nostra vedi,
credo ben che tu credi
ch’ella ti porgerà la bella mano,
ond’io son sí lontano.
Non la tocchar; ma reverente ai piedi
le di’ ch’io sarò là tosto ch’io possa,
o spirto ignudo od uom di carne et d’ossa.





































































































Svenja Rehse:
              Lebensfaden
Sí è debile il filo a cui s’attene
la gravosa mia vita

L
(Canzone 5a)


Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina
verso occidente, et che ’l dí nostro vola
a gente che di là forse l’aspetta,
veggendosi in lontan paese sola,
la stancha vecchiarella pellegrina
raddoppia i passi, et piú et piú s’affretta;
et poi cosí soletta
al fin di sua giornata
talora è consolata
d’alcun breve riposo, ov’ella oblia
la noia e ’l mal de la passata via.
Ma, lasso, ogni dolor che ’l dí m’adduce
cresce qualor s’invia
per partirsi da noi l’eterna luce.

Come ’l sol volge le ’nfiammate rote
per dar luogo a la notte, onde discende
dagli altissimi monti maggior l’ombra,
l’avaro zappador l’arme riprende,
et con parole et con alpestri note
ogni gravezza del suo petto sgombra;
et poi la mensa ingombra
di povere vivande,
simili a quelle ghiande,
le qua’ fuggendo tutto ’l mondo honora.
Ma chi vuol si rallegri ad ora ad ora,
ch’i’ pur non ebbi anchor, non dirò lieta,
ma riposata un’hora,
né per volger di ciel né di pianeta.

Quando vede ’l pastor calare i raggi
del gran pianeta al nido ov’egli alberga,
e ’nbrunir le contrade d’orïente,
drizzasi in piedi, et co l’usata verga,
lassando l’erba et le fontane e i faggi,
move la schiera sua soavemente;
poi lontan da la gente
o casetta o spelunca
di verdi frondi ingiuncha:
ivi senza pensier’ s’adagia et dorme.
Ahi crudo Amor, ma tu allor piú mi ’nforme
a seguir d’una fera che mi strugge,
la voce e i passi et l’orme,
et lei non stringi che s’appiatta et fugge.

E i naviganti in qualche chiusa valle
gettan le membra, poi che ’l sol s’asconde,
sul duro legno, et sotto a l’aspre gonne.
Ma io, perché s’attuffi in mezzo l’onde,
et lasci Hispagna dietro a le sue spalle,
et Granata et Marroccho et le Colonne,
et gli uomini et le donne
e ’l mondo et gli animali
aquetino i lor mali,
fine non pongo al mio obstinato affanno;
et duolmi ch’ogni giorno arroge al danno,
ch’i’ son già pur crescendo in questa voglia
ben presso al decim’anno,
né poss’indovinar chi me ne scioglia.

Et perché un poco nel parlar mi sfogo,
veggio la sera i buoi tornare sciolti
da le campagne et da’ solcati colli:
i miei sospiri a me perché non tolti
quando che sia? perché no ’l grave giogo?
perché dí et notte gli occhi miei son molli?
Misero me, che volli
quando primier sí fiso
gli tenni nel bel viso
per iscolpirlo imaginando in parte
onde mai né per forza né per arte
mosso sarà, fin ch’i’ sia dato in preda
a chi tutto diparte!
Né so ben ancho che di lei mi creda.

Canzon, se l’esser meco
dal matino a la sera
t’à fatto di mia schiera,
tu non vorrai mostrarti in ciascun loco;
et d’altrui loda curerai sí poco,
ch’assai ti fia pensar di poggio in poggio
come m’à concio ’l foco
di questa viva petra, ov’io m’appoggio.






























































Svenja Rehse:
              Hirte
Quando vede ’l pastor calare i raggi

LII
(Madrigale 1o)


Non al suo amante più Dïana piacque
quando per tal ventura tutta ignuda
la vide in mezzo de le gelide acque,

ch’a me la pastorella alpestra e cruda
posta a bagnar un leggiadretto velo
ch’a l’aura il vago e biondo capel chiuda,

tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo,
tutto tremar d’un amoroso gelo.


Svenja Rehse:
              Diana
tutto tremar d’un amoroso gelo

LIII
(Canzone 6a)


Spirto gentil, che quelle membra reggi
dentro le qua' peregrinando alberga
un signor valoroso, accorto et saggio,
poi che se' giunto a l'onorata verga
colla qual Roma et suoi erranti correggi,
et la richiami al suo antiquo vïaggio,
io parlo a te, però ch'altrove un raggio
non veggio di vertú, ch'al mondo è spenta,
né trovo chi di mal far si vergogni.
Che s'aspetti non so, né che s'agogni,
Italia, che suoi guai non par che senta:
vecchia, otïosa et lenta,
dormirà sempre, et non fia chi la svegli?
Le man' l'avess'io avolto entro' capegli.

Non spero che già mai dal pigro sonno
mova la testa per chiamar ch'uom faccia,
sí gravemente è oppressa et di tal soma;
ma non senza destino a le tue braccia,
che scuoter forte et sollevarla ponno,
è or commesso il nostro capo Roma.
Pon' man in quella venerabil chioma
securamente, et ne le treccie sparte,
sí che la neghittosa esca del fango.
I' che dí et notte del suo strazio piango,
di mia speranza ò in te la maggior parte:
che se 'l popol di Marte
devesse al proprio honore alzar mai gli occhi,
parmi pur ch'a' tuoi dí la gratia tocchi.

L'antiche mura ch'anchor teme et ama
et trema 'l mondo, quando si rimembra
del tempo andato e 'n dietro si rivolve,
e i sassi dove fur chiuse le membra
di ta' che non saranno senza fama,
se l'universo pria non si dissolve,
et tutto quel ch'una ruina involve,
per te spera saldar ogni suo vitio.
O grandi Scipïoni, o fedel Bruto,
quanto v'aggrada, s'egli è anchor venuto
romor là giú del ben locato officio!
Come cre' che Fabritio
si faccia lieto, udendo la novella!
Et dice: Roma mia sarà anchor bella.

Et se cosa di qua nel ciel si cura,
l'anime che lassú son citadine,
et ànno i corpi abandonati in terra,
del lungo odio civil ti pregan fine,
per cui la gente ben non s'assecura,
onde 'l camin a' lor tecti si serra:
che fur già sí devoti, et ora in guerra
quasi spelunca di ladron' son fatti,
tal ch'a' buon' solamente uscio si chiude,
et tra gli altari et tra le statue ignude
ogni impresa crudel par che se tratti.
Deh quanto diversi atti!
Né senza squille s'incommincia assalto,
che per Dio ringraciar fur poste in alto.

Le donne lagrimose, e 'l vulgo inerme
de la tenera etate, e i vecchi stanchi
ch'ànno sé in odio et la soverchia vita,
e i neri fraticelli e i bigi e i bianchi,
coll'altre schiere travagliate e 'nferme,
gridan: O signor nostro, aita, aita.
Et la povera gente sbigottita
ti scopre le sue piaghe a mille a mille,
ch'Anibale, non ch'altri, farian pio.
Et se ben guardi a la magion di Dio
ch'arde oggi tutta, assai poche faville
spegnendo, fien tranquille
le voglie, che si mostran sí 'nfiammate,
onde fien l'opre tue nel ciel laudate.

Orsi, lupi, leoni, aquile et serpi
ad una gran marmorea colomna
fanno noia sovente, et a sé danno.
Di costor piange quella gentil donna
che t'à chiamato a ciò che di lei sterpi
le male piante, che fiorir non sanno.
Passato è già piú che 'l millesimo anno
che 'n lei mancâr quell'anime leggiadre
che locata l'avean là dov'ell'era.
Ahi nova gente oltra misura altera,
irreverente a tanta et a tal madre!
Tu marito, tu padre:
ogni soccorso di tua man s'attende,
ché 'l maggior padre ad altr'opera intende.

Rade volte adiven ch'a l'alte imprese
fortuna ingiurïosa non contrasti,
ch'agli animosi fatti mal s'accorda.
Ora sgombrando 'l passo onde tu intrasti,
famisi perdonar molt'altre offese,
ch'almen qui da se stessa si discorda:
però che, quanto 'l mondo si ricorda,
ad huom mortal non fu aperta la via
per farsi, come a te, di fama eterno,
che puoi drizzar, s'i' non falso discerno,
in stato la piú nobil monarchia.
Quanta gloria ti fia
dir: Gli altri l'aitâr giovene et forte;
questi in vecchiezza la scampò da morte.

Sopra 'l monte Tarpeio, canzon, vedrai
un cavalier, ch'Italia tutta honora,
pensoso piú d'altrui che di se stesso.
Digli: Un che non ti vide anchor da presso,
se non come per fama huom s'innamora,
dice che Roma ognora
con gli occhi di dolor bagnati et molli
ti chier mercé da tutti sette i colli.























































































Svenja Rehse:
              Edler Geist
Spirto gentil, che quelle membra reggi

LIV
(Madrigale 2o)


Per ch’al viso d’Amor portava insegna,
mosse una pellegrina il mio cor vano,
ch’ogni altra mi parea d’onor men degna.

E lei seguendo su per l’erbe verdi,
udii dir alta voce di lontano:
Ahi, quanti passi per la selva perdi!

Allor mi strinsi a l’ombra d’un bel faggio,
tutto pensoso; e rimirando intorno,
vidi assai periglioso il mio vïaggio;

e tornai 'n dietro quasi a mezzo ’l giorno.


Svenja Rehse:
              Ihr folgend
E lei seguendo su per l’erbe verdi

LV
(Ballata 3a)


Quel foco ch’i’ pensai che fosse spento
dal freddo tempo et da l’età men fresca,
fiamma et martir ne l’anima rinfresca.

Non fur mai tutte spente, a quel ch’i’ veggio,
ma ricoperte alquanto le faville,
et temo no ’l secondo error sia peggio.
Per lagrime ch’i’ spargo a mille a mille
conven che ’l duol per gli occhi si distille
dal cor, ch’à seco le faville et l’ésca:
non pur qual fu, ma pare a me che cresca.

Qual foco non avrian già spento et morto
l’onde che gli occhi tristi versan sempre?
Amor, avegna mi sia tardi accorto,
vòl che tra duo contrari mi distempre;
et tende lacci in sí diverse tempre,
che quand’ò piú speranza che ’l cor n’esca,
allor piú nel bel viso mi rinvesca.


Svenja Rehse: Feuerherz
Quel foco ch’i’ pensai che fosse spento

LIX
(Ballata 4a)


Perché quel che mi trasse ad amar prima,
altrui colpa mi toglia,
del mio fermo voler già non mi svoglia.

Tra le chiome de l’òr nascose il laccio,
al qual mi strinse, Amore;
e da’ begli occhi mosse il freddo ghiaccio,
che mi passò nel core,
con la vertù d’un subito splendore,
che d’ogni altra sua voglia
sol rimembrando anchor l’anima spoglia.

Tolta m’è poi di que’ biondi capelli,
lasso, la dolce vista;
e ’l volger de’ duo lumi honesti et belli
col suo fuggir m’atrista;
ma perché ben morendo honor s’acquista,
per morte né per doglia
non vo’ che da tal nodo Amor mi scioglia.


Svenja Rehse: Haarband
Tra le chiome de l’òr nascose il laccio

LXIII
(Ballata 5a)


Volgendo gli occhi al mio novo colore
che fa di morte rimembrar la gente,
pietà vi mosse; onde, benignamente
salutando, teneste in vita il core.

La fraile vita, ch’ancor meco alberga,
fu de’ begli occhi vostri aperto dono,
e de la voce angelica soave.
Da lor conosco l’esser ov’io sono:
ché, come suol pigro animal per verga,
così destaro in me l’anima grave.

Del mio cor, donna, l’una e l’altra chiave
avete in mano; e di ciò son contento,
presto di navigare a ciascun vento,
ch’ogni cosa da voi m’è dolce honore.

ch’ogni cosa da voi m’è dolce honore

LXVI
(Sestina 3a)


L'aere gravato, et l'importuna nebbia
compressa intorno da rabbiosi vènti
tosto conven che si converta in pioggia;
et già son quasi di cristallo i fiumi,
e 'n vece de l'erbetta per le valli
non se ved'altro che pruine et ghiaccio.

Et io nel cor via piú freddo che ghiaccio
ò di gravi pensier' tal una nebbia,
qual si leva talor di queste valli,
serrate incontra agli amorosi vènti,
et circundate di stagnanti fiumi,
quando cade dal ciel piú lenta pioggia.

In picciol tempo passa ogni gran pioggia,
e 'l caldo fa sparir le nevi e 'l ghiaccio,
di che vanno superbi in vista i fiumi;
né mai nascose il ciel sí folta nebbia
che sopragiunta dal furor d'i vènti
non fugisse dai poggi et da le valli.

Ma, lasso, a me non val fiorir de valli,
anzi piango al sereno et a la pioggia
et a' gelati et a' soavi vènti:
ch'allor fia un dí madonna senza 'l ghiaccio
dentro, et di for senza l'usata nebbia,
ch'i' vedrò secco il mare, e' laghi, e i fiumi.

Mentre ch'al mar descenderanno i fiumi
et le fiere ameranno ombrose valli,
fia dinanzi a' begli occhi quella nebbia
che fa nascer d'i miei continua pioggia,
et nel bel petto l'indurato ghiaccio
che trâ del mio sí dolorosi vènti.

Ben debbo io perdonare a tutti vènti,
per amor d'un che 'n mezzo di duo fiumi
mi chiuse tra 'l bel verde e 'l dolce ghiaccio,
tal ch'i' depinsi poi per mille valli
l'ombra ov'io fui, ché né calor né pioggia
né suon curava di spezzata nebbia.

Ma non fuggío già mai nebbia per vènti,
come quel dí, né mai fiumi per pioggia,
né ghiaccio quando 'l sole apre le valli.

 quando il sole apre le valli

LXX
(Canzone 7a)

Lasso me, ch’ i’ non so in qual parte pieghi
la speme, ch’ è tradita omai più volte:
che se non è chi con pietà m’ascolte,
perché sparger al ciel sí spessi preghi?
Ma s’egli aven ch’anchor non mi si nieghi
finir anzi ’l mio fine
queste voci meschine,
non gravi al mio signor perch’io il ripreghi
di dir libero un dí tra l’erba e i fiori:
"Drez et raison es qu’ieu ciant e ’m demori."

Ragione è ben ch’alcuna volta io canti,
però ch’ò sospirato sí gran tempo
che mai non incomincio assai per tempo
per adequar col riso i dolor’ tanti.
Et s’io potesse far ch’agli occhi santi
porgesse alcun dilecto
qualche dolce mio detto,
o me beato sopra gli altri amanti!
Ma piú quand’io dirò senza mentire:
"Donna mi priegha, per ch’io voglio dire."

Vaghi pensier’ che cosí passo passo
scorto m’avete a ragionar tant’alto,
vedete che madonna à ’l cor di smalto,
sí forte ch’io per me dentro nol passo.
Ella non degna di mirar sí basso
che di nostre parole
curi, ché ’l ciel non vòle,
al qual pur contrastando i’ son già lasso:
onde, come nel cor m’induro e n’aspro,
"Così nel mio parlar voglio esser aspro."

Che parlo? o dove sono? e chi m’inganna,
altri ch’io stesso e ’l desïar soverchio?
Già s’i’trascorro il ciel di cerchio in cerchio,
nessun pianeta a pianger mi condanna.
Se mortal velo il mio veder appanna,
che colpa è de le stelle,
o de le cose belle?
Meco si sta chi dí et notte m’affanna,
poi che del suo piacer mi fe’ gir grave
"La dolce vista e ’l bel guardo soave."

Tutte le cose, di che ’l mondo è adorno
uscïr buone de man del mastro eterno;
ma me, che cosí adentro non discerno,
abbaglia il bel che mi si mostra intorno;
et s’al vero splendor già mai ritorno,
l’occhio non po’ star fermo,
cosí l’à fatto infermo
pur la sua propria colpa, et non quel giorno
ch’i’ volsi inver’ l’angelica beltade
"Nel dolce tempo de la prima etade."


Diese Canzone enthält fünf Zitate in den jeweils letzten Verszeilen, zwei von Minnesängern, eines von Dante, eines von Cino da Pistoia und in der letzten Zeile des Gedichtes ein Eigenzitat, aus dem Text XXIII.

Vaghi pensier’ che cosí passo passo
scorto m’avete a ragionar tant’alto

LXXI
(Canzone 8a)


Perché la vita è breve,
et l’ingegno paventa a l’alta impresa,
né di lui né di lei molto mi fido;
ma spero che sia intesa
là dov’io bramo, et là dove esser deve,
la doglia mia la qual tacendo i’ grido.
Occhi leggiadri dove Amor fa nido,
a voi rivolgo il mio debile stile,
pigro da sé, ma ’l gran piacer lo sprona;
et chi di voi ragiona
tien dal soggetto un habito gentile,
che con l’ale amorose
levando il parte d’ogni pensier vile.
Con queste alzato vengo a dir or cose
ch’ò portate nel cor gran tempo ascose.

Non perch’io non m’aveggia
quanto mia laude è ’ngiurïosa a voi:
ma contrastar non posso al gran desio,
lo quale è ’n me da poi
ch’i’ vidi quel che pensier non pareggia,
non che l’avagli altrui parlar o mio.
Principio del mio dolce stato rio,
altri che voi so ben che non m’intende.
Quando agli ardenti rai neve divegno,
vostro gentile sdegno
forse ch’allor mia indignitate offende.
Oh, se questa temenza
non temprasse l’arsura che m’incende,
beato venir men! ché ’n lor presenza
m’è più caro il morir che ’l viver senza.

Dunque ch’i’ non mi sfaccia,
sí frale obgetto a sí possente foco,
non è proprio valor che me ne scampi;
ma la paura un poco,
che ’l sangue vago per le vene agghiaccia,
risalda ’l cor, perché piú tempo avampi.
O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi,
o testimon’ de la mia grave vita,
quante volte m’udiste chiamar morte!
Ahi dolorosa sorte
lo star mi strugge, e ’l fuggir non m’aita.
Ma se maggior paura
non m’affrenasse, via corta et spedita
trarrebbe a fin questa apra pena et dura;
et la colpa è di tal che non à cura.

Dolor perché mi meni
fuor di camin a dir quel ch’i’ non voglio?
Sostien ch’io vada ove ’l piacer mi spigne.
Già di voi non mi doglio,
occhi sopra ’l mortal corso sereni,
né di lui ch’a tal nodo mi distrigne.
Vedete ben quanti color’ depigne
Amor sovente in mezzo del mio volto,
et potrete pensar qual dentro fammi,
là ’ve dí et notte stammi
adosso, col poder ch’a in voi raccolto,
luci beate et liete
se non che ’l veder voi stesse v’è tolto;
ma quante volte a me vi rivolgete,
conoscete in altrui quel che voi siete.

S’a voi fosse sí nota
la divina incredibile bellezza
di ch’io ragiono, come a chi la mira,
misurata allegrezza
non avria ’l cor: però forse è remota
dal vigor natural che v’apre et gira.
Felice l’alma che per voi sospira,
lumi del ciel, per li quali io ringratio
la vita che per altro non m’è a grado!
Oimè, perché sí rado
mi date quel dond’io mai non son satio?
Perché non piú sovente
mirate qual Amor di me fa stracio?
E perché mi spogliate immantanente
del ben ch’ad ora ad or l’anima sente?

Dico ch’ad ora ad ora,
vostra mercede, i’ sento in mezzo l’alma
una dolcezza inusitata et nova,
la qual ogni altra salma
di noiosi pensier’ disgombra allora,
sí che di mille un sol vi si ritrova:
quel tanto a me, non piú, del viver giova.
Et se questo mio ben durasse alquanto,
nullo stato aguagliarse al mio porrebbe;
ma forse altrui farrebbe
invido, et me superbo l’onor tanto:
però, lasso, convensi
che l’extremo del riso assaglia il pianto,
e ’nterrompendo quelli spirti accensi
a me ritorni, et di me stesso pensi.

L’amoroso pensero
ch’alberga dentro, in voi mi si discopre
tal che mi trâ del cor ogni altra gioia;
onde parole et opre
escon di me sí fatte allor ch’i’ spero
farmi immortal, perché la carne moia.
Fugge al vostro apparire angoscia et noia,
et nel vostro partir tornano insieme.
Ma perché la memoria innamorata
chiude lor poi l’entrata,
di là non vanno da le parti extreme;
onde s’alcun bel frutto
nasce di me, da voi vien prima il seme:
io per me son quasi un terreno asciutto,
cólto da voi, e ’l pregio è vostro in tutto.

Canzon, tu non m’acqueti, anzi m’infiammi
a dir di quel ch’a me stesso m’invola:
però sia certa de non esser sola.
 
m’è più caro il morir che ’l viver senza

LXXII
(Canzone 9a)


Gentil mia donna, i' veggio
nel mover de' vostr' occhi un dolce lume
che mi mostra la via ch'al ciel conduce;
et per lungo costume,
dentro là dove sol con Amor seggio,
quasi visibilmente il cor traluce.
Questa è la vista ch'a ben far m'induce,
et che mi scorge al glorïoso fine;
questa sola dal vulgo m'allontana:
né già mai lingua humana
contar poria quel che le due divine
luci sentir mi fanno,
e quando 'l verno sparge le pruine,
et quando poi ringiovenisce l'anno
qual era al tempo del mio primo affanno.

Io penso: se là suso,
onde 'l Motor eterno de le stelle
degnò mostrar del suo lavoro in terra,
son l'altr' opre sí belle,
aprasi la pregione, ov'io son chiuso,
et che 'l camino a tal vita mi serra.
Poi mi rivolgo a la mia usata guerra,
ringratiando Natura e 'l dí ch'io nacqui
che reservato m'ànno a tanto bene,
et lei ch'a tanta spene
alzò il mio cor: ché 'nsin allor io giacqui
a me noioso et grave,
da quel dí inanzi a me medesmo piacqui,
empiendo d'un pensier alto et soave
quel core ond'ànno i begli occhi la chiave.

Né mai stato gioioso
Amor o la volubile Fortuna
dieder a chi piú fur nel mondo amici,
ch'i' nol cangiassi ad una
rivolta d'occhi, ond'ogni mio riposo
vien come ogni arbor vien da sue radici.
Vaghe faville, angeliche, beatrici
de la mia vita, ove 'l piacer s'accende
che dolcemente mi consuma et strugge:
come sparisce et fugge
ogni altro lume dove'l vostro splende,
cosí de lo mio core,
quando tanta dolcezza in lui discende,
ogni altra cosa, ogni penser va fore,
et solo ivi con voi rimanse Amore.

Quanta dolcezza unquancho
fu in cor d'aventurosi amanti, accolta
tutta in un loco, a quel ch'i' sento è nulla,
quando voi alcuna volta
soavemente tra 'l bel nero e 'l biancho
volgete il lume in cui Amor si trastulla;
et credo da le fasce et da la culla
al mio imperfecto, a la Fortuna adversa
questo rimedio provedesse il cielo.
Torto mi face il velo
et la man che sí spesso s'atraversa
fra 'l mio sommo dilecto
et gli occhi, onde dí et notte si rinversa
il gran desio per isfogare il petto,
che forma tien dal varïato aspetto.

Perch'io veggio, et mi spiace,
che natural mia dote a me non vale
né mi fa degno d'un sí caro sguardo,
sforzomi d'esser tale
qual a l'alta speranza si conface,
et al foco gentil ond'io tutto ardo.
S'al ben veloce, et al contrario tardo,
dispregiator di quanto 'l mondo brama
per solicito studio posso farme,
porrebbe forse aitarme
nel benigno iudicio una tal fama:
Certo il fin de' miei pianti,
che non altronde il cor doglioso chiama,
vèn da' begli occhi alfin dolce tremanti,
ultima speme de' cortesi amanti.

Canzon, l'una sorella è poco inanzi,
et l'altra sento in quel medesmo albergo
apparechiarsi; ond'io piú carta vergo.

aprasi la pregione, ov'io son chiuso

LXXIII
(Canzone 10a)


Poi che per mio destino
a dir mi sforza quell’accesa voglia
che m’à sforzato a sospirar mai sempre,
Amor, ch’a ciò m’invoglia,
sia la mia scorta, e ’nsignimi ’l camino,
et col desio le mie rime contempre:
ma non in guisa che lo cor si stempre
di soverchia dolcezza, com’io temo,
per quel ch’i’ sento ov’occhio altrui non giugne;
ché ’l dir m’infiamma et pugne,
né per mi’ ’ngegno, ond’io pavento et tremo,
sí come talor sòle,
trovo ’l gran foco de la mente scemo,
anzi mi struggo al suon de le parole,
pur com’io fusse un huom di ghiaccio al sole.

Nel cominciar credia
trovar parlando al mio ardente desire
qualche breve riposo et qualche triegua.
Questa speranza ardire
mi porse a ragionar quel ch’i’sentia:
or m’abbandona al tempo, et si dilegua.
Ma pur conven che l’alta impresa segua
continüando l’amorose note,
sí possente è ’l voler che mi trasporta;
et la ragione è morta,
che tenea ’l freno, et contrastar nol pote.
Mostrimi almen ch’io dica
Amor in guisa che, se mai percote
gli orecchi de la dolce mia nemica,
non mia, ma di pietà la faccia amica.

Dico: se ’n quella etate
ch’al vero honor fur gli animi sí accesi,
l’industria d’alquanti huomini s’avolse
per diversi paesi,
poggi et onde passando, et l’onorate
cose cercando, e ’l più bel fior ne colse,
poi che Dio et Natura et Amor volse
locar compitamente ogni virtute
in quei be’ lumi, ond’io gioioso vivo,
questo et quell’altro rivo
non conven ch’i’ trapasse, et terra mute.
A lor sempre ricorro
come a fontana d’ogni mia salute,
et quando a morte disïando corro,
sol di lor vista al mio stato soccorro.

Come a forza di vènti
stanco nocchier di notte alza la testa
a’ duo lumi ch’a sempre il nostro polo,
cosí ne la tempesta
ch’i’ sostengo d’Amor, gli occhi lucenti
sono il mio segno e ’l mio conforto solo.
Lasso, ma troppo è piú quel ch’io ne ’nvolo
or quinci or quindi, come Amor m’informa,
che quel che vèn da gratïoso dono;
et quel poco ch’i’ sono
mi fa di loro una perpetua norma.
Poi ch’io li vidi in prima,
senza lor a ben far non mossi un’orma:
cosí gli ò di me posti in su la cima,
che ’l mio valor per sé falso s’estima.

I’ non poria già mai
imaginar, nonché narrar gli effecti,
che nel mio cor gli occhi soavi fanno:
tutti gli altri diletti
di questa vita ò per minori assai,
et tutte altre bellezze indietro vanno.
Pace tranquilla senza alcuno affanno:
simile a quella ch’è nel ciel eterna,
move da lor inamorato riso.
Cosí vedess’io fiso
come Amor dolcemente gli governa,
sol un giorno da presso
senza volger già mai rota superna,
né pensasse d’altrui né di me stesso,
e ’l batter gli occhi miei non fosse spesso.

Lasso, che disïando
vo quel ch’esser non puote in alcun modo,
et vivo del desir fuor di speranza:
solamente quel nodo
ch’Amor cerconda a la mia lingua quando
l’umana vista il troppo lume avanza,
fosse disciolto, i’ prenderei baldanza
di dir parole in quel punto sí nove
che farian lagrimar chi le ’ntendesse;
ma le ferite impresse
volgon per forza il cor piagato altrove,
ond’io divento smorto,
e ’l sangue si nasconde, i’ non so dove,
né rimango qual era; et sonmi accorto
che questo è ’l colpo di che Amor m’à morto.

Canzone, i’ sento già stancar la penna
del lungo et dolce ragionar co lei,
ma non di parlar meco i pensier’ mei.

Canzone, i’ sento già stancar la penna

LXXX
(Sestina 4a)


Chi è fermato di menar sua vita
su per l’onde fallaci et per gli scogli
scevro da morte con un picciol legno,
non pò molto lontan esser dal fine:
però sarrebbe da ritrarsi in porto
mentre al governo anchor crede la vela.

L’aura soave a cui governo et vela
commisi entrando a l’amorosa vita
et sperando venire a miglior porto,
poi mi condusse in piú di mille scogli;
et le cagion’ del mio doglioso fine
non pur d’intorno avea, ma dentro al legno.

Chiuso gran tempo in questo cieco legno
errai, senza levar occhio a la vela
ch’anzi al mio dí mi trasportava al fine;
poi piacque a lui che mi produsse in vita
chiamarme tanto indietro da li scogli
ch’almen da lunge m’apparisse il porto.

Come lume di notte in alcun porto
vide mai d’alto mar nave né legno
se non gliel tolse o tempestate o scogli,
cosí di su da la gomfiata vela
vid’io le ’nsegne di quell’altra vita,
et allor sospirai verso ’l mio fine.

Non perch’io sia securo anchor del fine:
ché volendo col giorno esser a porto
è gran vïaggio in cosí poca vita;
poi temo, ché mi veggio in fraile legno,
et piú che non vorrei piena la vela
del vento che mi pinse in questi scogli.

S’io esca vivo de’ dubbiosi scogli,
et arrive il mio exilio ad un bel fine,
ch’i’ sarei vago di voltar la vela,
et l’anchore gittar in qualche porto!
Se non ch’i’ ardo come acceso legno,
sí m’è duro a lassar l’usata vita.

Signor de la mia fine et de la vita,
prima ch’i’ fiacchi il legno tra gli scogli
drizza a buon porto l’affannata vela.

Chi è fermato di menar sua vita

CV
(Canzone 11a)


Mai non vo’ piú cantar com’io soleva,
ch’altri no m’intendeva, ond’ebbi scorno;
et puossi in bel soggiorno esser molesto.
Il sempre sospirar nulla releva;
già su per l’Alpi neva d’ogn’ ’ntorno;
et è già presso al giorno: ond’io son desto.
Un acto dolce honesto è gentil cosa;
et in donna amorosa anchor m’aggrada,
che ’n vista vada altera et disdegnosa,
non superba et ritrosa:
Amor regge suo imperio senza spada.
Chi smarrita à la strada, torni indietro;
chi non à albergo, posisi in sul verde;
chi non à l’auro, o ’l perde,
spenga la sete sua con un bel vetro.

I’die’ in guarda a san Pietro; or non piú, no:
intendami chi pò, ch’i’ m’intend’io.
Grave soma è un mal fio a mantenerlo:
quando posso mi spetro, et sol mi sto.
Fetonte odo che ’n Po cadde, et morío;
et già di là dal rio passato è ’l merlo:
deh, venite a vederlo. Or i’ non voglio:
non è gioco uno scoglio in mezzo l’onde,
e ’ntra le fronde il visco. Assai mi doglio
quando un soverchio orgoglio
molte vertuti in bella donna asconde.
Alcun è che risponde a chi nol chiama;
altri, chi ’il prega, si delegua et fugge;
altri al ghiaccio si strugge;
altri dí et notte la sua morte brama.

Proverbio "ama chi t’ama" è fatto antico.
I’ so ben quel ch’io dico: or lass’andare,
ché conven ch’altri impare a le sue spese.
Un’ humil donna grama un dolce amico.
Mal si conosce il fico. A me pur pare
senno a non cominciar tropp’alte imprese;
et per ogni paese è bona stanza.
L’infinita speranza occide altrui;
et anch’io fui alcuna volta in danza.
Quel poco che m’avanza
fia chi nol schifi, s’i’ ’l vo’ dare a lui.
I’ mi fido in Colui che ’l mondo regge,
et che’ seguaci Suoi nel boscho alberga,
che con pietosa verga
mi meni a passo omai tra le Sue gregge.

Forse ch’ogni uom che legge non s’intende;
et la rete tal tende che non piglia;
et chi troppo assotiglia si scavezza.
Non fia zoppa la legge ov’altri attende.
Per bene star si scende molte miglia.
Tal par gran meraviglia, et poi si sprezza.
Una chiusa bellezza è piú soave.
Benedetta la chiave che s’avvolse
al cor, et sciolse l’alma, et scossa l’ave
di catena sí grave,
e ’nfiniti sospir’ del mio sen tolse!
Là dove piú mi dolse, altri si dole,
et dolendo adolcisse il mio dolore:
ond’io ringratio Amore
che piú nol sento, et è non men che suole.

In silentio parole accorte et sagge,
e ’l suon che mi sottragge ogni altra cura,
et la pregione oscura ov’è ’l bel lume;
le nocturne vïole per le piagge,
et le le fere selvagge entr’a le mura,
et la dolce paura, e ’l bel costume,
et di duo fonti un fiume in pace vòlto
dov’io bramo, et raccolto ove che sia:
Amor et Gelosia m’ànno il cor tolto,
e i segni del bel volto
che mi conducon per piú piana via
a la speranza mia, al fin degli affanni.
O riposto mio bene, et quel che segue,
or pace or guerra or triegue,
mai non m’abbandonate in questi panni.

De’ passati miei danni piango et rido,
perché molto mi fido in quel ch’i’ odo.
Del presente mi godo, et meglio aspetto,
et vo contando gli anni, et taccio et grido.
E ’n bel ramo m’annido, et in tal modo
ch’i’ ne ringratio et lodo il gran disdetto
che l’indurato affecto alfine à vinto,
et ne l’alma depinto "I sare’ udito,
et mostratone a dito", et ànne extinto
(tanto inanzi son pinto,
ch’i’ ’l pur dirò) "Non fostú tant’ardito":
chi m’à ’l fianco ferito, et chi ’l risalda,
per cui nel cor via piú che ’n carta scrivo;
chi mi fa morto et vivo,
chi ’n un punto m’agghiaccia et mi riscalda.






































































Svenja
                Rehse: Kalt und heiß
De’ passati miei danni piango et rido 

CVI
(Madrigale 3o)


Nova angeletta sovra l’ale accorta
scese dal cielo in su la fresca riva,
là ’nd’io passava sol per mio destino.

Poi che senza compagna et senza scorta
mi vide, un laccio che di seta ordiva
tese fra l’erba, ond’è verde il camino.

Allor fui preso; et non mi spiacque poi,
sí dolce lume uscia degli occhi suoi.

Nova angeletta sovra l’ale accorta

CXIX
(Canzone 12a)


Una donna piú bella assai che ’l sole,
et piú lucente, et d’altrettanta etade,
con famosa beltade,
acerbo anchor mi trasse a la sua schiera.
Questa in penseri, in opre et in parole
(però ch’è de le cose al mondo rade),
questa per mille strade
sempre inanzi mi fu leggiadra altera.
Solo per lei tornai da quel ch’i’ era,
poi ch’i’ soffersi gli occhi suoi da presso;
per suo amor m’er’io messo
a faticosa impresa assai per tempo:
tal che, s’i’arrivo al disïato porto,
spero per lei gran tempo
viver, quand’altri mi terrà per morto.

Questa mia donna mi menò molt’anni
pien di vaghezza giovenile ardendo,
sí come ora io comprendo,
sol per aver di me piú certa prova,
mostrandomi pur l’ombra o ’l velo o’ panni
talor di sé, ma ’l viso nascondendo;
et io, lasso, credendo
vederne assai, tutta l’età mia nova
passai contento, e ’l rimembrar mi giova,
poi ch’alquanto di lei veggi’or piú inanzi.
I’dico che pur dianzi
qual io non l’avea vista infin allora,
mi si scoverse: onde mi nacque un ghiaccio
nel core, et èvvi anchora,
et sarà sempre fin ch’i’ le sia in braccio.

Ma non me ’l tolse la paura o ’l gielo
che pur tanta baldanza al mio cor diedi
ch’i’ le mi strinsi a’ piedi
per piú dolcezza trar de gli occhi suoi;
et ella, che remosso avea già il velo
dinanzi a’ miei, mi disse: - Amico, or vedi
com’io son bella, et chiedi
quanto par si convenga agli anni tuoi. -
- Madonna - dissi - già gran tempo in voi
posi ’l mio amor, ch’i’ sento or sí infiammato,
ond’a me in questo stato
altro volere o disvoler m’è tolto. -
Con voce allor di sí mirabil’ tempre
rispose, et con un volto
che temer et sperar mi farà sempre:

- Rado fu al mondo fra cosí gran turba
ch’udendo ragionar del mio valore
non si sentisse al core
per breve tempo almen qualche favilla;
ma l’adversaria mia che ’l ben perturba
tosto la spegne, ond’ogni vertú more
et regna altro signore
che promette una vita piú tranquilla.
De la tua mente Amor, che prima aprilla,
mi dice cose veramente ond’io
veggio che ’l gran desio
pur d’onorato fin ti farà degno;
et come già se’ de’ miei rari amici,
donna vedrai per segno
che farà gli occhi tuoi via piú felici. -

I’ volea dir: - Quest’è impossibil cosa -;
quand’ella: - Or mira - et leva’ gli occhi un poco
in piú riposto loco -
donna ch’a pochi si mostrò già mai. -
Ratto inchinai la fronte vergognosa,
sentendo novo dentro maggior foco;
et ella il prese in gioco,
dicendo: - I’ veggio ben dove tu stai.
Sí come ’l sol con suoi possenti rai
fa súbito sparire ogni altra stella,
cosí par or men bella
la vista mia cui maggiore luce preme.
Ma io però da’ miei non ti diparto,
ché questa et me d’un seme,
lei davanti et me poi, produsse un parto. -

Ruppesi intanto di vergogna il nodo
ch’a la mia lingua era distretto intorno
su nel primiero scorno,
allor quand’io del suo accorger m’accorsi;
e ’ncominciai: - S’egli è ver quel ch’i’ odo,
beato il padre, et benedetto il giorno
ch’à di voi il mondo adorno,
et tutto ’l tempo ch’a vedervi io corsi;
et se mai da la via dritta mi torsi,
duolmene forte, assai piú ch’i’ non mostro;
ma se de l’esser vostro
fossi degno udir piú, del desir ardo. -
Pensosa mi rispose, et cosí fiso
tenne il suo dolce sguardo
ch’al cor mandò co le parole il viso:

- Sí come piacque al nostro eterno padre,
ciascuna di noi due nacque immortale.
Miseri, a voi che vale?
Me’ v’era che da noi fosse il defecto.
Amate, belle, gioveni et leggiadre
fummo alcun tempo: et or siam giunte a tale
che costei batte l’ale
per tornar a l’anticho suo ricetto;
i’ per me sono un’ombra. Et or t’ò detto
quanto per te sí breve intender puossi. -
Poi che i pie’ suoi fur mossi,
dicendo: - Non temer ch’i’ m’allontani -,
di verde lauro una ghirlanda colse,
la qual co le sue mani
intorno intorno a le mie tempie avolse.

Canzon, chi tua ragion chiamasse obscura,
di’: - Non ò cura, perché tosto spero
ch’altro messaggio il vero
farà in piú chiara voce manifesto.
I’ venni sol per isvegliare altrui,
se chi m’impose questo
non m’inganò, quand’io partí’ da lui. -





























































































Svenja Rehse:
              Ruhmeseis
 viver, quand’altri mi terrà per morto

CXXI
(Madrigale 4o)


Or vedi, Amor, che giovenetta donna
tuo regno sprezza, et del mio mal non cura,
et tra duo ta’ nemici è sí secura.

Tu se’ armato, et ella in treccie e ’n gonna
si siede, et scalza, in mezzo i fiori et l’erba,
ver’ me spietata, e ’n contra te superba.

I’ son pregion; ma se pietà anchor serba
l’arco tuo saldo, et qualchuna saetta,
fa di te et di me, signor, vendetta.

fa di te et di me, signor, vendetta

CXXV
(Canzone 13a)


Se ’l pensier che mi strugge,
com’è pungente et saldo,
cosí vestisse d’un color conforme,
forse tal m’arde et fugge,
ch’avria parte del caldo,
et desteriasi Amor là dov’or dorme;
men solitarie l’orme
fôran de’ miei pie’ lassi
per campagne et per colli,
men gli occhi ad ognor molli,
ardendo lei che come un ghiaccio stassi,
et non lascia in me dramma
che non sia foco et fiamma.

Però ch’Amor mi sforza
et di saver mi spoglia,
parlo in rime aspre, et di dolcezza ignude:
ma non sempre a la scorza
ramo, né in fior, né ’n foglia
mostra di for sua natural vertude.
Miri ciò che ’l cor chiude
Amor et que’ begli occhi,
ove si siede a l’ombra.
Se ’l dolor che si sgombra
aven che ’n pianto o in lamentar trabocchi,
l’un a me nòce et l’altro
altrui, ch’io non lo scaltro.

Dolci rime leggiadre
che nel primiero assalto
d’Amor usai, quand’io non ebbi altr’arme,
chi verrà mai che squadre
questo mio cor di smalto
ch’almen com’io solea possa sfogarme?
Ch’aver dentro a lui parme
un che madonna sempre
depinge et de lei parla:
a voler poi ritrarla
per me non basto, et par ch’io me ne stempre.
Lasso, cosí m’è scorso
lo mio dolce soccorso.

Come fanciul ch’a pena
volge la lingua et snoda,
che dir non sa, ma ’l piú tacer gli è noia,
così ’l desir mi mena
a dire, et vo’ che m’oda
la dolce mia nemica anzi ch’io moia.
Se forse ogni sua gioia
nel suo bel viso è solo,
et di tutt’altro è schiva,
odil tu, verde riva,
e presta a’ miei sospir’ sí largo volo,
che sempre si ridica
come tu m’eri amica.

Ben sai che sí bel piede
non tocchò terra unquancho
come quel dí che già segnata fosti;
onde ’l cor lasso riede
col tormentoso fiancho
a partir teco i lor pensier’ nascosti.
Cosí avestú riposti
de’ be’ vestigi sparsi
anchor tra’ fiori et l’erba,
che la mia vita acerba,
lagrimando, trovasse ove acquetarsi!
Ma come pò s’appaga
l’alma dubbiosa et vaga.

Ovunque gli occhi volgo
trovo un dolce sereno
pensando: Qui percosse il vago lume.
Qualunque herba o fior colgo
credo che nel terreno
aggia radice, ov’ella ebbe in costume
gir fra le piagge e ’l fiume,
et talor farsi un seggio
fresco, fiorito et verde.
Cosí nulla se ’n perde,
et piú certezza averne fôra il peggio.
Spirto beato, quale
se’, quando altrui fai tale?

O poverella mia, come se’ rozza!
Credo che te 'l conoschi:
rimanti in questi boschi.

Ovunque gli occhi volgo

CXXVI
(Canzone 14a)


Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.

S’egli è pur mio destino
e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
et torni l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in piú riposato porto
né in piú tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l’ossa.

Tempo verrà anchor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
et là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi; et, o pietà!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m’impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Da’ be’ rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo;
et ella si sedea
humile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito et perle
eran quel dí a vederle;
qual si posava in terra, et qual su l’onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: Qui regna Amore.

Quante volte diss’io
allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso.
Cosí carco d’oblio
il divin portamento
e ’l volto e le parole e ’l dolce riso
m’aveano, et sí diviso
da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
Qui come venn’io, o quando?;
credendo esser in ciel, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
questa herba sí, ch’altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia,
poresti arditamente
uscir del boscho, et gir in fra la gente.

Chiare, fresche et dolci acque

CXXVII
(Canzone 15a)


In quella parte dove Amor mi sprona
conven ch’io volga le dogliose rime,
che son seguaci de la mente afflicta.
Quai fien ultime, lasso, et qua’ fien prime?
Collui che del mio mal meco ragiona
mi lascia in dubbio, sí confuso ditta.
Ma pur quanto l’istoria trovo scripta
in mezzo ’l cor (che sí spesso rincorro)
co la sua propria man de’ miei martiri,
dirò, perché i sospiri
parlando àn triegua, et al dolor soccorro.
Dico che, perch’io miri
mille cose diverse attento et fiso,
sol una donna veggio, e ’l suo bel viso.

Poi che la dispietata mia ventura
m’à dilungato dal maggior mio bene,
noiosa, inexorabile et superba,
Amor col rimembrar sol mi mantene:
onde s’io veggio in giovenil figura
incominciarsi il mondo a vestir d’erba,
parmi vedere in quella etate acerba
la bella giovenetta, ch’ora è donna;
poi che sormonta riscaldando il sole,
parmi qual esser sòle,
fiamma d’amor che ’n cor alto s’endonna;
ma quando il dí si dole
di lui che passo passo a dietro torni,
veggio lei giunta a’ suoi perfecti giorni.

In ramo fronde, over vïole in terra,
mirando a la stagion che ’l freddo perde,
et le stelle miglior’ acquistan forza,
ne gli occhi ò pur le vïolette e ’l verde
di ch’era nel principio de mia guerra
Amor armato, sí ch’anchor mi sforza,
et quella dolce leggiadretta scorza
che ricopria le pargolette membra
dove oggi alberga l’anima gentile
ch’ogni altro piacer vile
sembiar mi fa: sí forte mi rimembra
del portamento humile
ch’allor fioriva, et poi crebbe anzi agli anni,
cagion sola et riposo de’ miei affanni.

Qualor tenera neve per li colli
dal sol percossa veggio di lontano,
come ’l sol neve, mi governa Amore,
pensando nel bel viso piú che humano
che pò da lunge gli occhi miei far molli,
ma da presso gli abbaglia, et vince il core:
ove fra ’l biancho et l’aurëo colore,
sempre si mostra quel che mai non vide
occhio mortal, ch’io creda, altro che ’l mio;
et del caldo desio,
che, quando sospirando ella sorride,
m’infiamma sí che oblio
nïente aprezza, ma diventa eterno,
né state il cangia, né lo spegne il verno.

Non vidi mai dopo nocturna pioggia
gir per l’aere sereno stelle erranti,
et fiammeggiar fra la rugiada e ’l gielo,
ch’i’ non avesse i begli occhi davanti
ove la stancha mia vita s’appoggia,
quali io gli vidi a l’ombra di un bel velo;
et sí come di lor bellezze il cielo
splendea quel dí, così bagnati anchora
li veggio sfavillare, ond’io sempre ardo.
Se ’l sol levarsi sguardo,
sento il lume apparir che m’innamora;
se tramontarsi al tardo,
parmel veder quando si volge altrove
lassando tenebroso onde si move.

Se mai candide rose con vermiglie
in vasel d’oro vider gli occhi miei
allor allor da vergine man colte,
veder pensaro il viso di colei
ch’avanza tutte l’altre meraviglie
con tre belle excellentie in lui raccolte:
le bionde treccie sopra ’l collo sciolte,
ov’ogni lacte perderia sua prova,
e le guancie ch’adorna un dolce foco.
Ma pur che l’òra un poco
fior’ bianchi et gialli per le piaggie mova,
torna a la mente il loco
e ’l primo dí ch’i’ vidi a l’aura sparsi
i capei d’oro, ond’io sí súbito arsi,

Ad una ad una annoverar le stelle,
e ’n picciol vetro chiuder tutte l’acque,
forse credea, quando in sí poca carta
novo penser di ricontar mi nacque
in quante parti il fior de l’altre belle,
stando in se stessa, à la sua luce sparta
a ciò che mai da lei non mi diparta:
né farò io; et se pur talor fuggo,
in cielo e’n terra m’ha rachiuso i passi,
perch’agli occhi miei lassi
sempre è presente, ond’io tutto mi struggo.
Et cosí meco stassi,
ch’altra non veggio mai, né veder bramo,
né ’l nome d’altra né sospir’ miei chiamo.

Ben sai, canzon, che quant’io parlo è nulla
al celato amoroso mio pensero,
che dí et nocte ne la mente porto,
solo per cui conforto
in cosí lunga guerra ancho non pèro:
ché ben m’avria già morto
la lontananza del mio cor piangendo,
ma quinci da la morte indugio prendo.

 ma quinci da la morte indugio prendo

CXXVIII
(Canzone 16a)


Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che ’ miei sospir’ sian quali
spera ’l Tevero et l’Arno,
e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor’, che ’ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda;
ivi fa che ’l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.

Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ’l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché ’n cor venale amor cercate o fede.
Qual piú gente possede,
colui è piú da’ suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n’avene, or chi fia che ne scampi?

Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo
pose fra noi et la tedesca rabbia;
ma ’l desir cieco, e ’ncontr’al suo ben fermo,
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge et mansüete gregge
s’annidan sí che sempre il miglior geme:
et è questo del seme,
per piú dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sí ’l fianco,
che memoria de l’opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non piú bevve del fiume acqua che sangue.

Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ’l cielo in odio n’aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise.
Vostre voglie divise
guastan del mondo la piú bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, et le fortune afflicte et sparte
perseguire, e ’n disparte
cercar gente et gradire,
che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui, né per disprezzo.

Né v’accorgete anchor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno;
ma ’l vostro sangue piove
piú largamente, ch’altr’ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé cosí vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano senza soggetto:
ché ’l furor de lassú, gente ritrosa,
vincerne d’intellecto,
peccato è nostro, et non natural cosa.

Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l’un et l’altro mio parente?
Perdio, questo la mente
talor vi mova, et con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertú contra furore
prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto:
ché l’antiquo valore
ne gli italici cor’ non è anchor morto.

Signor’, mirate come ’l tempo vola,
et sí come la vita
fugge, et la morte n’è sovra le spalle.
Voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l’alma ignuda et sola
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno,
vènti contrari a la vita serena;
et quel che ’n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto piú degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche honesto studio si converta:
cosí qua giú si gode,
et la strada del ciel si trova aperta.

Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica,
perché fra gente altera ir ti convene,
et le voglie son piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.
Di’ lor: - Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace. -

I’ vo gridando: Pace, pace, pace.

CXXIX
(Canzone 17a)


Di pensier in pensier, di monte in monte
mi guida Amor, ch’ogni segnato calle
provo contrario a la tranquilla vita.
Se ’n solitaria piaggia, rivo, o fonte,
se ’nfra duo poggi siede ombrosa valle,
ivi s’acqueta l’alma sbigottita;
e come Amor l’envita,
or ride, or piange, or teme, or s’assecura;
e ’l volto che lei segue ov’ella il mena
si turba et rasserena,
et in un esser picciol tempo dura;
onde a la vista huom di tal vita experto
diria: Questo arde, et di suo stato è incerto.

Per alti monti et per selve aspre trovo
qualche riposo: ogni habitato loco
è nemico mortal degli occhi miei.
A ciascun passo nasce un penser novo
de la mia donna, che sovente in gioco
gira ’l tormento ch’i’ porto per lei;
et a pena vorrei
cangiar questo mio viver dolce amaro,
ch’i’ dico: Forse anchor ti serva Amore
ad un tempo migliore;
forse, a te stesso vile, altrui se’ caro.
Et in questa trapasso sospirando:
Or porrebbe esser vero? or come? or quando?

Ove porge ombra un pino alto od un colle
talor m’arresto, e pur nel primo sasso
disegno co la mente il suo bel viso.
Poi ch’a me torno, trovo il petto molle
de la pietate; et alor dico: Ahi, lasso,
dove se’ giunto! ed onde se’ diviso!
Ma mentre tener fiso
posso al primo pensier la mente vaga,
et mirar lei, ed oblïar me stesso,
sento Amor sí da presso,
che del suo proprio error l’alma s’appaga:
in tante parti et sí bella la veggio,
che se l’error durasse, altro non cheggio.

I’ l’ò piú volte (or chi fia che mi ’l creda?)
ne l’acqua chiara et sopra l’erba verde
veduto viva, et nel tronchon d’un faggio
e ’n bianca nube, sí fatta che Leda
avria ben detto che sua figlia perde,
come stella che ’l sol copre col raggio;
et quanto in piú selvaggio
loco mi trovo e ’n piú deserto lido,
tanto piú bella il mio pensier l’adombra.
Poi quando il vero sgombra
quel dolce error, pur lí medesmo assido
me freddo, pietra morta in pietra viva,
in guisa d’uom che pensi et pianga et scriva.

Ove d’altra montagna ombra non tocchi,
verso ’l maggiore e ’l piú expedito giogo
tirar mi suol un desiderio intenso;
indi i miei danni a misurar con gli occhi
comincio, e ’ntanto lagrimando sfogo
di dolorosa nebbia il cor condenso,
alor ch’i’ miro et penso,
quanta aria dal bel viso mi diparte
che sempre m’è sí presso et sí lontano.
Poscia fra me pian piano:
Che sai tu, lasso? forse in quella parte
or di tua lontananza si sospira.
Et in questo penser l’alma respira.

Canzone, oltra quell’alpe
là dove il ciel è piú sereno et lieto
mi rivedrai sovr’un ruscel corrente,
ove l’aura si sente
d’un fresco et odorifero laureto.
Ivi è ’l mio cor, et quella che ’l m’invola;
qui veder pôi l’imagine mia sola.

Di pensier in pensier, di monte in monte
mi guida Amor

CXXXV
(Canzone 18a)


Qual piú diversa et nova
cosa fu mai in qual che stranio clima,
quella, se ben s’estima,
piú mi rasembra: a tal son giunto, Amore.
Là onde il dí vèn fore,
vola un augel che sol senza consorte
di volontaria morte
rinasce, et tutto a viver si rinova.
Cosí sol si ritrova
lo mio voler, et cosí in su la cima
de’ suoi alti pensieri al sol si volve,
et cosí si risolve,
et cosí torna al suo stato di prima:
arde, et more, et riprende i nervi suoi,
et vive poi con la fenice a prova.

Una petra è sí ardita
là per l’indico mar, che da natura
tragge a sé il ferro e ’l fura
dal legno, in guisa che ’ navigi affonde.
Questo prov’io fra l’onde
d’amaro pianto, ché quel bello scoglio
à col suo duro argoglio
condutta ove affondar conven mia vita:
cosí l’alm’à sfornita
(furando ’l cor che fu già cosa dura,
et me tenne un, ch’or son diviso et sparso)
un sasso a trar piú scarso
carne che ferro. O cruda mia ventura,
che ’n carne essendo, veggio trarmi a riva
ad una viva dolce calamita!

Né l’extremo occidente
una fera è soave et queta tanto
che nulla piú, ma pianto
et doglia et morte dentro agli occhi porta:
molto convene accorta
esser qual vista mai ver’ lei si giri;
pur che gli occhi non miri,
l’altro puossi veder securamente.
Ma io incauto, dolente,
corro sempre al mio male, et so ben quanto
n’ò sofferto, et n’aspetto; ma l’engordo
voler ch’è cieco et sordo
sí mi trasporta, che ’l bel viso santo
et gli occhi vaghi fien cagion ch’io pèra,
di questa fera angelica innocente.

Surge nel mezzo giorno
una fontana, e tien nome dal sole,
che per natura sòle
bollir le notti, e ’n sul giorno esser fredda;
e tanto si raffredda
quanto ’l sol monta, et quanto è piú da presso.
Cosí aven a me stesso,
che son fonte di lagrime et soggiorno:
quando ’l bel lume adorno
ch’è ’l mio sol s’allontana, et triste et sole
son le mie luci, et notte oscura è loro,
ardo allor; ma se l’oro
e i rai veggio apparir del vivo sole,
tutto dentro et di for sento cangiarme,
et ghiaccio farme, cosí freddo torno.

Un’altra fonte à Epiro,
di cui si scrive ch’essendo fredda ella,
ogni spenta facella
accende, et spegne qual trovasse accesa.
L’anima mia, ch’offesa
anchor non era d’amoroso foco,
appressandosi un poco
a quella fredda, ch’io sempre sospiro,
arse tutta: et martiro
simil già mai né sol vide, né stella,
ch’un cor di marmo a pietà mosso avrebbe;
poi che ’nfiammata l’ebbe,
rispensela vertú gelata et bella.
Cosí piú volte à ’l cor racceso et spento:
i’ ’l so che ’l sento, et spesso me ’nadiro.

Fuor tutti nostri lidi,
ne l’isole famose di Fortuna,
due fonti à: chi de l’una
bee, mor ridendo; et chi de l’altra, scampa.
Simil fortuna stampa
mia vita, che morir poria ridendo,
del gran piacer ch’io prendo,
se nol temprassen dolorosi stridi.
Amor, ch’anchor mi guidi
pur a l’ombra di fama occulta et bruna,
tacerem questa fonte, ch’ognor piena,
ma con piú larga vena
veggiam, quando col Tauro il sol s’aduna:
cosí gli occhi miei piangon d’ogni tempo,
ma piú nel tempo che madonna vidi.

Chi spïasse, canzone
quel ch’i’ fo, tu pôi dir: Sotto un gran sasso
in una chiusa valle, ond’esce Sorga,
si sta; né chi lo scorga
v’è, se no Amor, che mai nol lascia un passo,
et l’immagine d’una che lo strugge,
ché per sé fugge tutt’altre persone.

Sotto un gran sasso
in una chiusa valle, ond’esce Sorga

CXLII
(Sestina 5a)


A la dolce ombra de le belle frondi
corsi fuggendo un dispietato lume
che’nfin qua giú m’ardea dal terzo cielo;
et disgombrava già di neve i poggi
l’aura amorosa che rinova il tempo,
et fiorian per le piagge l’erbe e i rami.

Non vide il mondo sí leggiadri rami,
né mosse il vento mai sí verdi frondi
come a me si mostrâr quel primo tempo:
tal che, temendo de l’ardente lume,
non volsi al mio refugio ombra di poggi,
ma de la pianta piú gradita in cielo.

Un lauro mi difese allor dal cielo,
onde piú volte vago de’ bei rami
da po’ son gito per selve et per poggi;
né già mai ritrovai tronco né frondi
tanto honorate dal superno lume
che non mutasser qualitate a tempo.

Però piú fermo ognor di tempo in tempo,
seguendo ove chiamar m’udia dal cielo
e scorto d’un soave et chiaro lume,
tornai sempre devoto ai primi rami
et quando a terra son sparte le frondi
et quando il sol fa verdeggiar i poggi.

Selve, sassi, campagne, fiumi et poggi,
quanto è creato, vince et cangia il tempo:
ond’io cheggio perdono a queste frondi,
se rivolgendo poi molt’anni il cielo
fuggir disposi gl’ invescati rami
tosto ch’incominciai di veder lume.

Tanto mi piacque prima il dolce lume
ch’i’ passai con diletto assai gran poggi
per poter appressar gli amati rami:
ora la vita breve e ’l loco e ’l tempo
mostranmi altro sentier di gire al cielo
et di far frutto, non pur fior’ et frondi.

Altr’amor, altre frondi et altro lume,
altro salir al ciel per altri poggi
cerco, ché n’é ben tempo, et altri rami.

Un lauro mi difese allor dal cielo

CXLIX
(Ballata 6a)


Di tempo in tempo mi si fa men dura
l’angelica figura e ’l dolce riso,
et l’aria del bel viso
e degli occhi leggiadri meno oscura.

Che fanno meco omai questi sospiri
che nascean di dolore
et mostravan di fore
la mia angosciosa et desperata vita?
S’aven che ’l volto in quella parte giri
per acquetare il core,
parmi vedere Amore
mantener mia ragion, et darmi aita:

Né però trovo anchor guerra finita,
né tranquillo ogni stato del cor mio,
ché piú m’arde ’l desio,
quanto piú la speranza m’assicura.

Che fanno meco omai questi sospiri

CCVI
(Canzone 19a)

S’i’ ’l dissi mai, ch’i’ vegna in odio a quella
del cui amor vivo, et senza ’l qual morrei;
s’i’ ’l dissi, che miei dí sian pochi et rei,
et di vil signoria l’anima ancella;
s’i’ ’l dissi, contra me s’arme ogni stella,
et dal mio lato sia
Paura et Gelosia,
et la nemica mia
piú feroce ver ’me sempre et piú bella.

S’i’ ’l dissi, Amor l’aurate sue quadrella
spenda in me tutte, et l’impiombate in lei;
s’i’ ’l dissi, cielo et terra, uomini et dèi
mi sian contrari, et essa ognor piú fella;
s’i’ ’l dissi, chi con sua cieca facella
dritto a morte m’invia,
pur come suol si stia,
né mai piú dolce o pia
ver’ me si mostri, in atto od in favella.

S’i’ ’l dissi mai, di quel ch’i’ men vorrei
piena trovi quest’aspra et breve via;
s’i’ ’l dissi, il fero ardor che mi desvia
cresca in me quanto il fier ghiaccio in costei;
s’i’ ’l dissi, unqua non veggianli occhi mei
sol chiaro, o sua sorella,
né donna né donzella,
ma terribil procella,
qual Pharaone in perseguir li hebrei.

S’i’ ’l dissi, coi sospir, quant’io mai fei,
sia Pietà per me morta, et Cortesia;
s’i’ ’l dissi, il dir s’innaspri, che s’udia
sí dolce allor che vinto mi rendei;
s’i’ ’l dissi, io spiaccia a quella ch’i’torrei
sol, chiuso in fosca cella,
dal dí che la mamella
lasciai, finché si svella
da me l’alma, adorar: forse e ’l farei.

Ma s’io nol dissi, chi sí dolce apria
meo cor a speme ne l’età novella,
regg ’anchor questa stanca navicella
col governo di sua pietà natia,
né diventi altra, ma pur qual solia
quando piú non potei,
che me stesso perdei
né piú perder devrei.
Mal fa chi tanta fe’ sí tosto oblia.

I’nol dissi già mai, né per dir poria
per oro o per cittadi o per castella.
Vinca ’l ver dunque, et si rimanga in sella,
et vinta a terra caggia la bugia.
Tu sai in me il tutto, Amor: s’ella ne spia,
dinne quel che dir dêi.
I’ beato direi,
tre volte et quattro et sei,
chi, devendo languir, si morí pria.

Per Rachel ò servito, et non per Lia;
né con altra saprei
viver, et sosterrei,
quando ’l ciel ne rappella,
girmen con ella in sul carro de Helia.

meo cor a speme ne l’età novella

CCVII
(Canzone 20a)


Ben mi credea passar mio tempo omai
come passato avea quest’anni a dietro,
senz’altro studio et senza novi ingegni:
or poi che da madonna i’ non impetro
l’usata aita, a che condutto m’ài,
tu ’l vedi, Amor, che tal arte m’insegni.
Non so s’i’ me ne sdegni,
che ’n questa età mi fa divenir ladro
del bel lume leggiadro,
senza ’l qual non vivrei in tanti affanni.
Cosí avess’io i primi anni
preso lo stil ch’or prender mi bisogna,
ché 'n giovenil fallir è men vergogna.

Li occhi soavi ond’io soglio aver vita,
de le divine lor alte bellezze
fûrmi in sul cominciar tanto cortesi,
che ’n guisa d’uom cui non proprie ricchezze,
ma celato di for soccorso aita,
vissimi, che né lor né altri offesi.
Or, bench’a me ne pesi,
divento ingiurïoso et importuno:
ché ’l poverel digiuno
vèn ad atto talor che ’n miglior stato
avria in altrui biasmato.
Se le man’ di Pietà Invidia m’à chiuse,
fame amorosa, e ’l non poter, mi scuse.

Ch’i’ ò cercate già vie piú di mille
per provar senza lor se mortal cosa
mi potesse tener in vita un giorno.
L’anima, poi ch’altrove non à posa,
corre pur a l’angeliche faville;
et io, che son di cera, al foco torno;
et pongo mente intorno
ove si fa men guardia a quel ch’i’ bramo;
et come augel in ramo,
ove men teme, ivi piú tosto è colto,
cosí dal suo bel volto
l’involo or uno et or un altro sguardo;
et di ciò inseme mi nutrico et ardo.

Di mia morte mi pasco, et vivo in fiamme:
stranio cibo, et mirabil salamandra;
ma miracol non è, da tal si vòle.
Felice agnello a la penosa mandra
mi giacqui un tempo; or a l’extremo famme
et Fortuna et Amor pur come sòle:
cosí rose et vïole
à primavera, e ’l verno à neve et ghiaccio.
Però, s’i’ mi procaccio
quinci et quindi alimenti al viver curto,
se vòl dir che sia furto,
sí ricca donna deve esser contenta,
s’altri vive del suo, ch’ella nol senta.

Chi nol sa di chi vivo, et vissi sempre,
dal dí che ’n prima que’ belli occhi vidi,
che mi fecer cangiar vita et costume?
Per cercar terra et mar da tutti lidi,
chi pò saver tutte l’umane tempre?
L'un vive, ecco, d'odor, là sul gran fiume;
io qui di foco et lume
queto i frali et famelici miei spirti.
Amor, et vo’ ben dirti,
disconvensi a signor l’esser sí parco.
Tu ài li strali et l’arco:
fa’ di tua man, non pur bramand’io mora,
ch’un bel morir tutta la vita honora.

Chiusa fiamma è piú ardente; et se pur cresce,
in alcun modo piú non pò celarsi:
Amor, i ’l so, che ’l provo a le tue mani.
Vedesti ben, quando sí tacito arsi;
or de’ miei gridi a ma medesmo incresce,
che vo noiando et proximi et lontani.
O mondo, o penser’ vani;
o mia forte ventura a che m’adduce!
O di che vaga luce
al cor mi nacque la tenace speme,
onde l’annoda et preme
quella che con tua forza al fin mi mena!
La colpa è vostra, et mio ’l danno et la pena.

Cosí di ben amar porto tormento,
et del peccato altrui cheggio perdóno:
anzi del mio, che devea torcer li occhi
dal troppo lume, et di sirene al suono
chiuder li orecchi; et anchor non me ’n pento,
che di dolce veleno il cor trabocchi.
Aspett’io pur che scocchi
l’ultimo colpo chi mi diede ’l primo;
et fia, s’i’ dritto extimo,
un modo di pietate occider tosto,
non essendo ei disposto
a far altro di me che quel che soglia:
ché ben muor chi morendo esce di doglia.

Canzon mia, fermo in campo
starò, ch’elli è disnor morir fuggendo;
et me stesso reprendo
di tai lamenti; sí dolce è mia sorte,
pianto, sospiri et morte.
Servo d’Amor, che queste rime leggi,
ben non à ’l mondo, che ’l mio mal pareggi.

Chiusa fiamma è piú ardente

CCXIV
(Sestina 6a)


Anzi tre dí creata era alma in parte
da por sua cura in cose altere et nove,
et dispregiar di quel ch’a molti è ’n pregio.
Quest’anchor dubbia del fatal suo corso,
sola pensando, pargoletta et sciolta,
intrò di primavera in un bel bosco.

Era un tenero fior nato in quel bosco
il giorno avanti, et la radice in parte
ch’appressar nol poteva anima sciolta:
ché v’eran di lacciuo’ forme sí nove,
et tal piacer precipitava al corso,
che perder libertate ivi era in pregio.

Caro, dolce, alto et faticoso pregio,
che ratto mi volgesti al verde bosco
usato di svïarne a mezzo ’l corso!
Et ò cerco poi ’l mondo a parte a parte,
se versi o petre o suco d’erbe nove
mi rendesser un dí la mente sciolta.

Ma, lasso, or veggio che la carne sciolta
fia di quel nodo ond’è ’l suo maggior pregio
prima che medicine, antiche o nove,
saldin le piaghe ch’i’ presi in quel bosco,
folto di spine, ond’i’ ò ben tal parte,
che zoppo n’esco, e ’ntra’vi a sí gran corso.

Pien di lacci et di stecchi un duro corso
aggio a fornire, ove leggera et sciolta
pianta avrebbe uopo, et sana d’ogni parte.
Ma Tu, Signor, ch’ài di pietate il pregio,
porgimi la man dextra in questo bosco:
vinca ’l Tuo sol le mie tenebre nove.

Guarda ’l mio stato, a le vaghezze nove
che ’nterrompendo di mia vita il corso
m’àn fatto habitador d’ombroso bosco;
rendimi, s’esser pò, libera et sciolta
l’errante mia consorte; et fia Tuo ’l pregio,
s’anchor Teco la trovo in miglior parte.

Or ecco in parte le question’ mie nove:
s’alcun pregio in me vive, o ’n tutto è corso,
o l’alma sciolta, o ritenuta al bosco.

intrò di primavera in un bel bosco

CCXXXVII
(Sestina 7a)


Non à tanti animali il mar fra l’onde,
né lassú sopra ’l cerchio de la luna
vide mai tante stelle alcuna notte,
né tanti augelli albergan per li boschi,
né tant’erbe ebbe mai il campo né piaggia,
quant’à ’l mio cor pensier’ ciascuna sera.

Di dí in dí spero ormai l’ultima sera
che scevri in me dal vivo terren l’onde
et mi lasci dormire in qualche piaggia,
ché tanti affanni uom mai sotto la luna
non sofferse quant’io: sannolsi i boschi,
che sol vo ricercando giorno et notte.

Io non ebbi già mai tranquilla notte,
ma sospirando andai matino et sera,
poi ch’Amor femmi un cittadin de’ boschi.
Ben fia, prima ch’i’ posi, il mar senz’onde,
et la sua luce avrà ’l sol da la luna,
e i fior d’april morranno in ogni piaggia.

Consumando mi vo di piaggia in piaggia
el dí pensoso, poi piango la notte;
né stato ò mai, se non quanto la luna.
Ratto come imbrunir veggio la sera,
sospir’ del petto, et de li occhi escono onde
da bagnar l’erbe, et da crollare i boschi.

Le città son nemiche, amici i boschi,
a’miei pensier’, che per quest’alta piaggia
sfogando vo col mormorar de l’onde,
per lo dolce silentio de la notte:
tal ch’io aspetto tutto ’l dí la sera,
che ’l sol si parta et dia luogo a la luna.

Deh or foss’io col vago de la luna
adormentato in qua’ che verdi boschi,
et questa ch’anzi vespro a me fa sera,
con essa et con Amor in quella piaggia
sola venisse a starsi ivi una notte;
e ’l dí si stesse e ’l sol sempre ne l’onde.

Sovra dure onde, al lume de la luna
canzon nata di notte in mezzo i boschi,
ricca di piaggia vedrai deman da sera.


Non à tanti animali il mar fra l’onde

CCXXXIX
(Sestina 8a)


Là ver’ l’aurora, che sí dolce l’aura
al tempo novo suol movere i fiori,
et li augelletti incominciar lor versi,
sí dolcemente i pensier’ dentro a l’alma
mover mi sento a chi li à tutti in forza,
che ritornar convenmi a le mie note.

Temprar potess’io in sí soavi note
i miei sospiri ch’addolcissen Laura,
faccendo a lei ragion ch’a me fa forza!
Ma pria fia ’l verno la stagion de’ fiori,
ch’amor fiorisca in quella nobil alma,
che non curò già mai rime né versi.

Quante lagrime, lasso, et quanti versi
ò già sparti al mio tempo, e ’n quante note
ò riprovato humilïar quell’alma!
Ella si sta com’aspr’alpe a l’aura
dolce, la qual ben move frondi et fiori,
ma nulla pò se ’ncontra maggior forza.

Homini et dèi solea vincer per forza
Amor, come si legge in prose e ’n versi:
et io ’l provai in sul primo aprir de’ fiori.
Ora né ’l mio signor né le sue note
né ’l pianger mio né i preghi pòn far Laura
trarre o di vita o di martir quest’alma.

A l’ultimo bisogno, o misera alma,
accampa ogni tuo ingegno, ogni tua forza,
mentre fra noi di vita alberga l’aura.
Nulla al mondo è che non possano i versi;
et li aspidi incantar sanno in lor note,
nonché ’l gielo adornar con novi fiori.

Ridon or per le piagge herbette et fiori:
esser non pò che quella angelica alma
non senta il suon de l’amorose note.
Se nostra ria fortuna è di piú forza,
lagrimando et cantando i nostri versi
et col bue zoppo andrem cacciando l’aura.

In rete accolgo l’aura, e ’n ghiaccio i fiori,
e ’n versi tento sorda et rigida alma,
che né forza d’Amor prezza né note.


A l’ultimo bisogno, o misera alma,
accampa ogni tuo ingegno, ogni tua forza

CCLXIV
(Canzone 21a)


I’ vo pensando, et nel penser m’assale
una pietà sí forte di me stesso,
che mi conduce spesso
ad altro lagrimar ch’i’ non soleva:
ché, vedendo ogni giorno il fin piú presso,
mille fïate ò chieste a Dio quell’ale
co le quai del mortale
carcer nostro intelletto al ciel si leva.
Ma infin a qui nïente mi releva
prego o sospiro o lagrimar ch’io faccia:
e cosí per ragion conven che sia,
ché chi, possendo star, cadde tra via,
degno è che mal suo grado a terra giaccia.
Quelle pietose braccia
in ch’io mi fido, veggio aperte anchora,
ma temenza m’accora
per gli altrui exempli, et del mio stato tremo,
ch’altri mi sprona, et son forse a l’extremo.

L’un penser parla co la mente, et dice:
- Che pur agogni? onde soccorso attendi?
Misera, non intendi
con quanto tuo disnore il tempo passa?
Prendi partito accortamente, prendi;
e del cor tuo divelli ogni radice
del piacer che felice
nol pò mai fare, et respirar nol lassa.
Se già è gran tempo fastidita et lassa
se’ di quel falso dolce fugitivo
che ’l mondo traditor può dare altrui,
a che ripon’ piú la speranza in lui,
che d’ogni pace et di fermezza è privo?
Mentre che ’l corpo è vivo,
ài tu ’l freno in bailia de’ penser’ tuoi:
deh stringilo or che pôi,
ché dubbioso è ’l tardar come tu sai,
e ’l cominciar non fia per tempo omai.

Già sai tu ben quanta dolcezza porse
agli occhi tuoi la vista di colei
la qual ancho vorrei
ch’a nascer fosse per piú nostra pace.
Ben ti ricordi, et ricordar te ’n dêi,
de l’imagine sua quand’ella corse
al cor, là dove forse
non potea fiammma intrar per altrui face:
ella l’accese; et se l’ardor fallace
durò molt’anni in aspectando un giorno,
che per nostra salute unqua non vène,
or ti solleva a piú beata spene,
mirando ’l ciel che ti si volve intorno,
immortal et addorno:
ché dove, del mal suo qua giú sí lieta,
vostra vaghezza acqueta
un mover d’occhi, un ragionar, un canto,
quanto fia quel piacer, se questo è tanto? -

Da l’altra parte un pensier dolce et agro,
con faticosa et dilectevol salma
sedendosi entro l’alma,
preme ’l cor di desio, di speme il pasce;
che sol per fama glorïosa et alma
non sente quand’io agghiaccio, o quand’io flagro,
s’i’ son pallido o magro;
et s’io l’occido piú forte rinasce.
Questo d’allor ch’i’ m’addormiva in fasce
venuto è di dí in dí crescendo meco,
e temo ch’un sepolcro ambeduo chiuda.
Poi che fia l’alma de le membra ignuda,
non pò questo desio piú venir seco;
ma se ’l latino e ’l greco
parlan di me dopo la morte, è un vento:
ond’io, perché pavento
adunar sempre quel ch’un’ora sgombre,
vorre’ ’l ver abbracciar, lassando l’ombre.

Ma quell’altro voler di ch’i’son pieno,
quanti press’a lui nascon par ch’adugge;
e parte il tempo fugge
che, scrivendo d’altrui, di me non calme;
e ’l lume de’ begli occhi che mi strugge
soavemente al suo caldo sereno,
mi ritien con un freno
contra chui nullo ingegno o forza valme.
Che giova dunque perché tutta spalme
la mia barchetta, poi che ’nfra li scogli
è ritenuta anchor da ta’ duo nodi?
Tu che dagli altri, che ’n diversi modi
legano ’l mondo, in tutto mi disciogli,
Signor mio, ché non togli
omai dal volto mio questa vergogna?
Ché ’n guisa d’uom che sogna,
aver la morte inanzi gli occhi parme;
et vorrei far difesa, et non ò l’arme.

Quel ch’i’ fo veggio, et non m’inganna il vero
mal conosciuto, anzi mi sforza Amore,
che la strada d’onore
mai nol lassa seguir, chi troppo il crede;
et sento ad ora ad or venirmi al core
un leggiadro disegno aspro et severo
ch’ogni occulto pensero
tira in mezzo la fronte, ov’altri ’l vede:
ché mortal cosa amar con tanta fede
quanta a Dio sol per debito convensi,
piú si disdice a chi piú pregio brama.
Et questo ad alta voce ancho richiama
la ragione svïata dietro ai sensi;
ma perch’ell’oda, et pensi
tornare, il mal costume oltre la spigne,
et agli occhi depigne
quella che sol per farmi morir nacque,
perch’a me troppo, et a se stessa, piacque.

Né so che spatio mi si desse il cielo
quando novellamente io venni in terra
a soffrir l’aspra guerra
che ’ncontra me medesmo seppi ordire;
né posso il giorno che la vita serra
antiveder per lo corporeo velo;
ma varïarsi il pelo
veggio, et dentro cangiarsi ogni desire.
Or ch’i’ mi credo al tempo del partire
esser vicino, o non molto da lunge,
come chi ’l perder face accorto et saggio,
vo ripensando ov’io lassai ’l vïaggio
de la man destra, ch’a buon porto aggiunge:
et da l’un lato punge
vergogna et duol che ’ndietro mi rivolve;
dall’altro non m’assolve
un piacer per usanza in me sí forte
ch’a patteggiar n’ardisce co la morte.

Canzon, qui sono, ed ò ’l cor via piú freddo
de la paura che gelata neve,
sentendomi perir senz’alcun dubbio:
ché pur deliberando ò vòlto al subbio
gran parte omai de la mia tela breve;
né mai peso fu greve
quanto quel ch’i’ sostengo in tale stato:
ché co la morte a lato
cerco del viver mio novo consiglio,
et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio.


I’ vo pensando, et nel penser m’assale
una pietà sí forte di me stesso

CCLXVIII
(Canzone 22a)


Che debb’io far? che mi consigli, Amore?
Tempo è ben di morire,
et ò tardato piú ch’i’ non vorrei.
Madonna è morta, et à seco il mio core;
et volendol seguire,
interromper conven quest’anni rei,
perché mai veder lei
di qua non spero, et l’aspettar m’è noia.
Poscia ch’ogni mia gioia
per lo suo dipartire in pianto è volta,
ogni dolcezza de mia vita è tolta.

Amor, tu ’l senti, ond’io teco mi doglio,
quant’è il damno aspro et grave;
e so che del mio mal ti pesa et dole,
anzi del nostro, perch’ad uno scoglio
avem rotto la nave,
et in un punto n’è scurato il sole.
Qual ingegno a parole
poria aguagliare il mio doglioso stato?
Ahi orbo mondo, ingrato,
gran cagion ài di dever pianger meco,
ché quel bel ch’era in te, perduto ài seco.

Caduta è la tua gloria, et tu nol vedi,
né degno eri, mentr’ella
visse qua giú, d’aver sua conoscenza,
né d’esser tocco da’ suoi sancti piedi,
perché cosa sí bella
devea ’l ciel adornar di sua presenza.
Ma io, lasso, che senza
lei né vita mortal né me stesso amo,
piangendo la richiamo:
questo m’avanza di cotanta spene,
et questo solo anchor qui mi mantene.

Oïmè, terra è fatto il suo bel viso,
che solea far del cielo
et del ben di lassú fede fra noi;
l’invisibil sua forma è in paradiso,
disciolta di quel velo
che qui fece ombra al fior degli anni suoi,
per rivestirsen poi
un’altra volta, et mai piú non spogliarsi,
quando alma et bella farsi
tanto piú la vedrem, quanto piú vale
sempiterna bellezza che mortale.

Piú che mai bella et piú leggiadra donna
tornami inanzi, come
là dove piú gradir sua vista sente.
Questa è del viver mio l’una colomna,
l’altra è ’l suo chiaro nome,
che sona nel mio cor sí dolcemente.
Ma tornandomi a mente
che pur morta è la mia speranza, viva
allor ch’ella fioriva,
sa ben Amor qual io divento, et (spero)
vedel colei ch’è or sí presso al vero.

Donne, voi che miraste sua beltate
et l’angelica vita
con quel celeste portamento in terra,
di me vi doglia, et vincavi pietate,
non di lei ch’è salita
a tanta pace, et m’à lassato in guerra:
tal che s’altri mi serra
lungo tempo il camin da seguitarla,
quel ch’Amor meco parla,
sol mi ritien ch’io non recida il nodo.
Ma e’ ragiona dentro in cotal modo:

- Pon’ freno al gran dolor che ti trasporta,
ché per soverchie voglie
si perde ’l cielo, ove ’l tuo core aspira,
dove è viva colei ch’altrui par morta,
et di sue belle spoglie
seco sorride, et sol di te sospira;
et sua fama, che spira
in molte parti anchor per la tua lingua,
prega che non extingua,
anzi la voce al suo nome rischiari,
se gli occhi suoi ti fur dolci né cari. -

Fuggi ’l sereno e ’l verde,
non t’appressare ove sia riso o canto,
canzon mia no, ma pianto:
non fa per te di star fra gente allegra,
vedova, sconsolata, in vesta negra.


Che debb’io far? che mi consigli, Amore?

CCLXX
(Canzone 23a)


Amor, se vuo’ ch’i’torni al giogo anticho,
come par che tu mostri, un’altra prova
meravigliosa et nova,
per domar me, conventi vincer pria.
Il mio amato tesoro in terra trova,
che m’è nascosto, ond’io son sí mendico,
e ’l cor saggio pudico,
ove suol albergar la vita mia;
et s’egli è ver che tua potentia sia
nel ciel sí grande come si ragiona,
et ne l’abisso (perché qui fra noi
quel che tu val’ et puoi,
credo che ’l sente ogni gentil persona),
ritogli a Morte quel ch’ella n’à tolto,
et ripon’ le tue insegne nel bel volto.

Riponi entro ’l bel viso il vivo lume
ch’era mia scorta, et la soave fiamma
ch’anchor, lasso, m’infiamma
essendo spenta: or che fea dunque ardendo?
E’ non si vide mai cervo né damma
con tal desio cercar fonte né fiume,
qual io il dolce costume
onde ò già molto amaro; et piú n’attendo,
se ben me stesso et mia vaghezza intendo,
che mi fa vaneggiar sol del pensero,
et gire in parte ove la strada manca,
et co la mente stanca
cosa seguir che mai giugner non spero.
Or al tuo richiamar venir non degno,
ché segnoria non ài fuor del tuo regno.

Fammi sentir de quell’aura gentile
di for, sí come dentro anchor si sente;
la qual era possente,
cantando, d’acquetar li sdegni et l’ire,
di serenar la tempestosa mente
et sgombrar d’ogni nebbia oscura et vile,
ed alzava il mio stile
sovra di sé, dove or non poria gire.
Aguaglia la speranza col desire;
et poi che l’alma è in sua ragion piú forte,
rendi agli occhi, agli orecchi il proprio obgetto,
senza qual imperfetto
è lor oprare, e ’l mio vivere è morte.
Indarno or sovra me tua forza adopre,
mentre ’l mio primo amor terra ricopre.

Fa ch’io riveggia il bel guardo, ch’un sole
fu sopra ’l ghiaccio ond’io solea gir carco;
fa’ ch’i’ ti trovi al varco,
onde senza tornar passò ’l mio core;
prendi i dorati strali, et prendi l’arco,
et facciamisi udir, sí come sòle,
col suon de le parole
ne le quali io imparai che cosa è amore;
movi la lingua, ov’erano a tutt’ore
disposti gli ami ov’io fui preso, et l’ésca
ch’i’ bramo sempre; e i tuoi lacci nascondi
fra i capei crespi et biondi,
ché il mio voler altrove non s’invesca;
spargi co le tue man’ le chiome al vento,
ivi mi lega, et puo’ mi far contento.

Dal laccio d’òr non sia mai chi me scioglia,
negletto ad arte, e ’nnanellato et hirto,
né de l’ardente spirto
de la sua vista dolcemente acerba,
la qual dí et notte più che lauro o mirto
tenea in me verde l’amorosa voglia,
quando si veste et spoglia
di fronde il bosco, et la campagna d’erba.
Ma poi che Morte è stata sí superba
che spezzò il nodo ond’io temea scampare,
né trovar pôi, quantunque gira il mondo,
di che ordischi ’l secondo,
che giova, Amor, tuoi ingegni ritentare?
Passata è la stagion, perduto ài l’arme,
di ch’io tremava: ormai che puoi tu farme?

L’arme tue furon gli occhi, onde l’accese
saette uscivan d’invisibil foco,
et ragion temean poco,
ché ’ncontra ’l ciel non val difesa humana;
il pensar e ’l tacer, il riso e ’l gioco,
l’abito honesto e ’l ragionar cortese,
le parole che ’ntese
avrian fatto gentil d’alma villana,
l’angelica sembianza, humile et piana,
ch’or quinci or quindi udia tanto lodarsi;
e ’l sedere et lo star, che spesso altrui
poser in dubbio a cui
devesse il pregio di piú laude darsi.
Con quest’arme vincevi ogni cor duro:
or se’ tu disarmato; i’ son securo.

Gli animi ch’al tuo regno il cielo inchina
leghi ora in uno et ora in altro modo;
ma me sol ad un nodo
legar potêi, ché ’l ciel di piú non volse.
Quel’uno è rotto; e ’n libertà non godo
ma piango et grido: "Ahi nobil pellegrina,
qual sententia divina
me legò inanzi, et te prima disciolse?
Dio, che sí tosto al mondo ti ritolse,
ne mostrò tanta et sí alta virtute
solo per infiammar nostro desio".
Certo ormai non tem’io,
Amor, de la tua man nove ferute;
indarno tendi l’arco, a voito scocchi;
sua virtú cadde al chiuder de’ begli occhi.

Morte m’à sciolto, Amor, d’ogni tua legge:
quella che fu mia donna al ciel è gita,
lasciando trista et libera mia vita.


Amor, se vuo’ ch’i’torni al giogo anticho

CCCXXIV
(Ballata 7a)


Amor, quando fioria
mia spene, e ’l guidardon di tanta fede,
tolta m’è quella ond’attendea mercede.

Ahi dispietata morte, ahi crudel vita!
L’una m’à posto in doglia,
et mie speranze acerbamente à spente;
l’altra mi tèn qua giú contra mia voglia,
et lei che se n’è gita
seguir non posso, ch’ella nol consente.

Ma pur ogni or presente
nel mezzo del meo cor madonna siede,
et qual è la mia vita, ella sel vede.


nel mezzo del meo cor madonna siede

CCCXXV
(Canzone 25a)

Tacer non posso, et temo non adopre
contrario effecto la mia lingua al core,
che vorria far honore
a la sua donna, che dal ciel n’ascolta.
Come poss’io, se non m’insegni, Amore,
con parole mortali aguagliar l’opre
divine, et quel che copre
alta humiltate, in se stessa raccolta?
Ne la bella pregione, onde or è sciolta,
poco era stato anchor l’alma gentile,
al tempo che di lei prima m’accorsi:
onde súbito corsi,
ch’era de l’anno et di mi’ etate aprile,
a coglier fiori in quei prati d’intorno,
sperando a li occhi suoi piacer sí addorno.

Muri eran d’alabastro, e ’l tetto d’oro,
d’avorio uscio, et fenestre di zaffiro,
onde ’l primo sospiro
mi giunse al cor, et giugnerà l’extremo:
Inde i messi d’Amor armati usciro
di saette et di foco, ond’io di loro,
coronati d’alloro,
pur come or fusse, ripensando tremo.
D’un bel diamante quadro, et mai non scemo,
vi si vedea nel mezzo un seggio altero
ove, sola, sedea, la bella donna:
dinanzi, una colonna
cristallina, et iv’entro ogni pensero
scritto, et for tralucea sí chiaramente,
che mi fea lieto, et sospirar sovente.

A le pungenti, ardenti et lucide arme,
a la vittorïosa insegna verde,
contra cui in campo perde
Giove et Apollo et Poliphemo et Marte,
ov’è ’l pianto ognor fresco, et si rinverde,
giunto mi vidi: et non possendo aitarme,
preso lassai menarme
ond’or non so d’uscir la via né l’arte.
Ma sí com’uom talor che piange, et parte
vede cosa che li occhi e ’l cor alletta,
cosí colei per ch’io son in pregione,
standosi ad un balcone,
che fu sola a’ suoi dí cosa perfetta,
cominciai a mirar con tal desio
che me stesso e ’l mio mal posi in oblio.

I’ era in terra, e ’l cor in paradiso,
dolcemente oblïando ogni altra cura,
et mia viva figura
far sentia un marmo e ’mpiér di meraviglia,
quando una donna assai pronta et secura,
di tempo anticha, et giovene del viso,
vedendomi sí fiso
a l’atto de la fronte et de le ciglia:
"Meco - mi disse -, meco ti consiglia,
ch’i’ son d’altro poder che tu non credi;
et so far lieti et tristi in un momento,
piú leggiera che ’l vento,
et reggo et volvo quando al mondo vedi.
Tien’ pur li occhi come aquila in quel sole:
parte da’ orecchi a queste mie parole.

Il dí che costei nacque, eran le stelle
che producon fra voi felici effecti
in luoghi alti et electi,
l’una ver’ l’altra con amor converse:
Venere e ’l padre con benigni aspecti
tenean le parti signorili et belle,
et le luci impie et felle
quasi in tutto del ciel eran disperse.
Il sol mai sí bel giorno non aperse:
l’aere et la terra s’allegrava, et l’acque
per lo mar avean pace et per li fiumi.
Fra tanti amici lumi,
una nube lontana mi dispiacque:
la qual temo che ’n pianto si resolve,
se Pietate altramente il ciel non volve.

Com’ella venne in questo viver basso,
ch’a dir il ver non fu degno d’averla,
cosa nova a vederla,
già santissima et dolce anchor acerba,
parea chiusa in òr fin candida perla;
et or carpone, or con tremante passo,
legno, acqua, terra, o sasso
verde facea, chiara, soave, et l’erba
con le palme o co i pie’ fresca et superba,
et fiorir co i belli occhi le campagne,
et acquetar i vènti et le tempeste
con voci anchor non preste,
di lingua che dal latte si scompagne:
chiaro mostrando al mondo sordo et cieco
quanto lume del ciel fusse già seco.

Poi che crescendo in tempo et in virtute,
giunse a la terza sua fiorita etate,
leggiadria né beltate
tanta non vide ’l sol, credo, già mai:
li occhi pien’ di letitia et d’onestate,
e ’l parlar di dolcezza et di salute.
Tutte lingue son mute,
a dir di lei quel che tu sol ne sai.
Sí chiaro à ’l volto di celesti rai,
che vostra vista in lui non pò fermarse;
et da quel suo bel carcere terreno
di tal foco ài ’l cor pieno,
ch’altro piú dolcemente mai non arse:
ma parmi che sua súbita partita
tosto ti fia cagion d’amara vita".

Detto questo, a la sua volubil rota
si volse, in ch’ella fila il nostro stame,
trista et certa indivina de’ miei danni:
ché, dopo non molt’anni,
quella per ch’io ò di morir tal fame,
canzon mia, spense Morte acerba et rea,
che piú bel corpo occider non potea.


Tacer non posso, et temo

CCCXXXI
(Canzone 26a)


Solea da la fontana di mia vita
allontanarme, et cercar terre et mari,
non mio voler, ma mia stella seguendo;
et sempre andai, tal Amor diemmi aita,
in quelli esilii quanto e’ vide amari,
di memoria et di speme il cor pascendo.
Or lasso, alzo la mano, et l’arme rendo
a l’empia et vïolenta mia fortuna,
che privo m’à di sí dolce speranza.
Sol memoria m’avanza,
et pasco ’l gran desir sol di quest’una:
onde l’alma vien men frale et digiuna.

Come a corrier tra via, se ’l cibo manca,
conven per forza rallentare il corso,
scemando la vertù che ’l fea gir presto,
cosí, mancando a la mia vita stanca
quel caro nutrimento in che di morso
die’ chi ’l mondo fa nudo e ’l mio cor mesto,
il dolce acerbo, e ’l bel piacer molesto
mi si fa d’ora in hora, onde ’l camino
sí breve non fornir spero et pavento.
Nebbia o polvere al vento,
fuggo per piúù non esser pellegrino:
et così vada, s’è pur mio destino.

Mai questa mortal vita a ma non piacque
(sassel’ Amor con cui spesso ne parlo)
se non per lei che fu ’l suo lume, e ’l mio:
poi che ’n terra morendo, al ciel rinacque
quello spirto ond’io vissi, a seguitarlo
(licito fusse) è ’l mi’ sommo desio.
Ma da dolermi ò ben sempre, perch’io
fui mal accorto a provveder mio stato,
ch’Amor mostrommi sotto quel bel ciglio
per darmi altro consiglio:
ché tal morí già tristo et sconsolato,
cui poco inanzi era ’l morir beato.

Nelli occhi ov’habitar solea ’l mio core
fin che mia dura sorte invidia n’ebbe,
che di sí ricco albergo il pose in bando,
di sua man propria avea descritto Amore
con lettre di pietà quel ch’averrebbe
tosto del mio sí lungo ir desïando.
Bello et dolce morire era allor quando,
morend’io, non moria mia vita inseme,
anzi vivea di me l’optima parte:
or mie speranza sparte
à Morte, et poca terra il mio ben preme;
et vivo; et mai nol penso ch’i’ non treme.

Se stato fusse il mio poco intellecto
meco al bisogno, et non altra vaghezza
l’avesse disvïando altrove vòlto,
ne la fronte a madonna avrei ben lecto:
- Alfin se’ giunto d’ogni tua dolcezza
et al principio del tuo amaro molto. -
Questo intendendo, dolcemente sciolto
in sua presentia del mortal mio velo
et di questa noiosa et grave carne,
potea inanzi lei andarne,
a veder preparar sua sedia in cielo:
or l’andrò dietro, omai, con altro pelo.

Canzon, s’uom trovi in suo amor viver queto,
di’: - Muor’ mentre se’ lieto,
ché morte al tempo è non duol, ma refugio;
et chi ben pò morir, non cerchi indugio. -


Solea da la fontana di mia vita


CCCXXXII
(Sestina 9a - "Sestina doppia")


Mia benigna fortuna e ’l viver lieto,
i chiari giorni et le tranquille notti
e i soavi sospiri e ’l dolce stile
che solea resonare in versi e ’n rime,
vòlti subitamente in doglia e ’n pianto,
odiar vita mi fanno, et bramar morte.

Crudel, acerba, inexorabil Morte,
cagion mi dài di mai non esser lieto,
ma di menar tutta mia vita in pianto,
e i giorni oscuri et le dogliose notti.
I mei gravi sospir’ non vanno in rime,
e ’l mio duro martir vince ogni stile.

Ove è condutto il mio amoroso stile?
A parlar d’ira, a ragionar di morte.
U’ sono i versi, u’ son giunte le rime,
che gentil cor udia pensoso et lieto;
ove ’l favoleggiar d’amor le notti?
Or non parl’io, né penso, altro che pianto.

Già mi fu col desir sí dolce il pianto,
che condia di dolcezza ogni agro stile,
et vegghiar mi facea tutte le notti:
or m’è ’l pianger amaro piú che morte,
non sperando mai ’l guardo honesto et lieto,
alto sogetto a le mie basse rime.

Chiaro segno Amor pose a le mie rime
dentro a’ belli occhi, et or l’à posto in pianto,
con dolor rimembrando il tempo lieto:
ond’io vo col penser cangiando stile,
et ripregando te, pallida Morte,
che mi sottragghi a sí penose notti.

Fuggito è ’l sonno a le mie crude notti,
e ’l suono usato a le mie roche rime,
che non sanno trattar altro che morte,
cosí è ’l mio cantar converso in pianto.
Non à ’l regno d’Amor sí vario stile,
ch’è tanto or tristo quanto mai fu lieto.

Nesun visse già mai piú di me lieto,
nesun vive piú tristo et giorni et notti;
et doppiando ’l dolor, doppia lo stile
che trae del cor sí lagrimose rime.
Vissi di speme, or vivo pur di pianto,
né contra Morte spero altro che Morte.

Morte m’à morto, et sola pò far Morte
ch’i’ torni a riveder quel viso lieto
che piacer mi facea i sospiri e ’l pianto,
l’aura dolce et la pioggia a le mie notti,
quando i penseri electi tessea in rime,
Amor alzando il mio debile stile.

Or avess’io un sí pietoso stile
che Laura mia potesse tôrre a Morte,
come Euridice Orpheo sua senza rime,
ch’i’ vivrei anchor piú che mai lieto!
S’esser non pò, qualchuna d’este notti
chiuda omai queste due fonti di pianto.

Amor, i’ ò molti et molt’anni pianto
mio grave danno in doloroso stile,
né da te spero mai men fere notti:
et però mi son mosso a pregar Morte
che mi tolla di qui, per farme lieto,
ove è colei ch’i’ canto et piango in rime.

Se sí alto pôn gir mie stanche rime,
ch’agiungan lei ch’è fuor d’ira et di pianto,
et fa ’l ciel or di sue bellezze lieto,
ben riconoscerà ’l mutato stile,
che già forse le piacque anzi che Morte
chiaro a lei giorno, a me fesse atre notti.

O voi che sospirate a miglior’ notti,
ch’ascoltate d’Amore o dite in rime,
pregate non mi sia piú sorda Morte,
porto de le miserie et fin del pianto;
muti una volta quel suo antiquo stile,
ch’ogni uom attrista, et me pò far sí lieto.

Far mi pò lieto in una o ’n poche notti:
e ’n aspro stile e ’n angosciose rime
prego che ’l pianto mio finisca Morte.

né contra Morte spero altro che Morte


CCCLIX
(Canzone 27a)


Quando il soave mio fido conforto
per dar riposo a la mia vita stanca
ponsi del letto in su la sponda manca
con quel suo dolce ragionare accorto,
tutto di pietà et di paura smorto
dico:"Onde vien’ tu ora, o felice alma?"
Un ramoscel di palma
et un di lauro trae del suo bel seno,
et dice:"Dal sereno
ciel empireo et di quelle sante parti
mi mossi et vengo sol per consolarti".

In atto et in parole la ringratio
humilmente, et poi demando:"Or donde
sai tu il mio stato?" Et ella: "Le triste onde
del pianto, di che mai tu non se’ satio,
coll’aura de’ sospir’, per tanto spatio
passano al cielo, et turban la mia pace:
sí forte ti dispiace
che di questa miseria sia partita,
et giunta a miglior vita;
che piacer ti devria, se tu m’amasti
quanto in sembianti et ne’ tuoi dir’ mostrasti".

Rispondo: "Io non piango altro che me stesso
che son rimaso in tenebre e ’n martire,
certo sempre del tuo al ciel salire
come di cosa ch’uom vede da presso.
Come Dio et Natura avrebben messo
in un cor giovenil tanta vertute,
se l’eterna salute
non fusse destinata al tuo ben fare,
o de l’anime rare,
ch’altamente vivesti qui tra noi,
et che súbito al ciel volasti poi?

Ma io che debbo altro che pianger sempre,
misero et sol, che senza te son nulla?
Ch’or fuss’io spento al latte et a la culla,
per non provar de l’amorose tempre!"_
Et ella: "A che pur piangi et ti distempre?
Quanto era meglio alzar da terra l’ali,
et le cose mortali
et queste dolci tue fallaci ciance
librar con giusta lance,
et seguir me, s’è ver che tanto m’ami,
cogliendo omai qualchun di questi rami!"

"I’ volea demandar - respond’io allora - :
Che voglion importar quelle due frondi?"_
Et ella: "Tu medesmo ti rispondi,
tu la cui non penna tanto l’una honora:
palma è victoria, et io, giovene anchora,
vinsi il mondo, et me stessa; il lauro segna
trïumpho, ond’io son degna,
mercé di quel Signor che mi die’ forza.
Or tu, s’altri ti sforza,
a Lui ti volgi, a Lui chiedi soccorso,
sí che siam Seco al fine del tuo corso".

"Son questi i capei biondi, et l’aureo nodo,
- dich’io - ch’ancor mi stringe, et quei belli occhi
che fur mio sol? " "Non errar con li sciocchi,
né parlar - dice - o creder a lor modo.
Spirito ignudo sono, e ’n ciel mi godo:
quel che tu cerchi è terra, già molt’anni,
ma per trarti d’affanni
m’è dato a parer tale; et anchor quella
sarò, piú che mai bella,
a te piú cara, sí selvaggia et pia,
salvando inseme tua salute et mia".

I’ piango; et ella il volto
co le sue man’ m’asciuga, et poi sospira
dolcemente, et s’adira
con parole che i sassi romper ponno:
et dopo questo si parte ella, e ’l sonno.

et dopo questo si parte ella, e ’l sonno


CCCLX
(Canzone 28a)


Quel’antiquo mio dolce empio signore
fatto citar dinanzi a la reina
che la parte divina
tien di natura nostra e ’n cima sede,
ivi, com’oro che nel foco affina,
mi rappresento cerco di dolore,
di paura et d’orrore,
quasi huom che teme morte et ragion chiede;
e ’ncomincio: - Madonna, il manco piede
giovenetto pos’io nel costui regno,
ond’altro ch’ira et sdegno
non ebbi mai; et tanti et sí diversi
tormenti ivi soffersi,
ch’alfine vinta fu quell’infinita
mia patïentia, e ’n odio ebbi la vita.

Cosí ’l mio tempo infin qui trapassato
è in fiamma e ’n pene: et quante utili honeste
vie sprezzai, quante feste,
per servir questo lusinghier crudele!
Et qual ingegno à sí parole preste,
che stringer possa ’l mio infelice stato,
et le mie d’esto ingrato
tanto et sí gravi e sí giuste querele?
O poco mèl, molto aloè con fele!
In quanto amaro à la mia vita avezza
con sua falsa dolcezza,
la qual m’atrasse a l’amorosa schiera!
Che s’i’ non m’inganno, era
disposto a sollevarmi alto da terra:
e’ mi tolse di pace et pose in guerra.

Questi m’à fatto men amare Dio
ch’i’ non deveva, et men curar me stesso:
per una donna ò messo
egualmente in non cale ogni pensero.
Di ciò m’è stato consiglier sol esso,
sempr’aguzzando il giovenil desio
a l’empia cote, ond’io
sperai riposo al suo giogo aspro et fero.
Misero, a che quel chiaro ingegno altero,
et l’altre doti a me date dal cielo?
ché vo cangiando ’l pelo,
né cangiar posso l’ostinata voglia:
cosí in tutto mi spoglia
di libertà questo crudel ch’i’ accuso,
ch’amaro viver m’à vòlto in dolce uso.

Cercar m’à fatto deserti paesi,
fiere et ladri rapaci, hispidi dumi,
dure genti et costumi,
et ogni error che’ pellegrini intrica,
monti, valli, paludi et mari et fiumi,
mille lacciuoli in ogni parte tesi;
e ’l verno in strani mesi,
con pericol presente et con fatica:
né costui né quell’altra mia nemica
ch’i’ fuggía, mi lasciavan sol un punto;
onde, s’i’ non son giunto
anzi tempo da morte acerba et dura,
pietà celeste à cura
di mia salute non questo tiranno
che del mio duol si pasce, et del mio danno.

Poi che suo fui non ebbi hora tranquilla,
né spero aver, et le mie notti il sonno
sbandiro, et piú non ponno
per herbe o per incanti a sé ritrarlo.
Per inganni et per forza è fatto donno
sovra miei spirti; et no sonò poi squilla,
ov’io sia, in qualche villa,
ch’i’ non l’udisse. Ei sa che ’l vero parlo:
ché legno vecchio mai non róse tarlo
come questi ’l mio core, in che s’annida,
et di morte lo sfida.
Quinci nascon le lagrime e i martiri,
le parole e i sospiri,
di ch’io mi vo stancando, et forse altrui.
Giudica tu, che me conosci et lui. -

Il mio adversario con agre rampogne
comincia: - O donna, intendi l’altra parte,
ché ’l vero, onde si parte
quest’ingrato, dirà senza defecto.
Questi in sua prima età fu dato a l’arte
da vender parolette, anzi menzogne;
né par che si vergogne,
tolto da quella noia al mio dilecto,
lamentarsi di me, che puro et netto,
contra ’l desio, che spesso il suo mal vòle,
lui tenni, ond’or si dole,
in dolce vita, ch’ei miseria chiama:
salito in qualche fama
solo per me, che ’l suo intellecto alzai
ov’alzato per sé non fôra mai.

Ei sa che ’l grande Atride et l’alto Achille,
et Hanibàl al terren vostro amaro,
et di tutti il piú chiaro
un altro et di vertute et di fortuna,
com’a ciascun le sue stelle ordinaro,
lasciai cader in vil amor d’ancille:
et a costui di mille
donne electe, excellenti, n’elessi una,
qual non si vedrà mai sotto la luna,
benché Lucretia ritornasse a Roma;
et sí dolce ydïoma
le diedi, et un cantar tanto soave,
che penser basso o grave
non poté mai durar dinanzi a lei.
Questi fur con costui li ’nganni mei.

Questo fu il fel, questi li sdegni et l’ire,
piú dolci assai che di null’altra il tutto.
Di bon seme mal frutto
mieto; et tal merito à chi ’ngrato serve.
Sí l’avea sotto l’ali mie condutto,
ch’a donne et cavalier piacea il suo dire;
et sí alto salire
i’’l feci, che tra’ caldi ingegni ferve
il suo nome et de’ suoi detti conserve
si fanno con diletto in alcun loco;
ch’or saria forse un roco
mormorador di corti, un huom del vulgo:
i’ l’exalto et divulgo,
per quel ch’elli ’mparò ne la mia scola,
et da colei che fu nel mondo sola.

Et per dir a l’extremo il gran servigio,
da mille acti inhonesti l’ò ritratto,
ché mai per alcun pacto
a lui piacer non poteo cosa vile:
giovene schivo et vergognoso in acto
et in penser, poi che fatto era huom ligio
di lei ch’alto vestigio
li ’mpresse al core, et fecel suo simíle.
Quanto à del pellegrino et del gentile,
da lei tene, et da me, di cui si biasma.
Mai nocturno fantasma
d’error non fu sí pien com’ei vèr’ noi:
ch’è in gratia, da poi
che ne conobbe, a Dio et a la gente.
Di ciò il superbo si lamenta et pente.

Ancor, et questo è quel che tutto avanza,
da volar sopra ’l ciel li avea dat’ali
per le cose mortali,
che son scala al fattor, chi ben l’estima;
ché mirando ei ben fiso quante et quali
eran vertuti in quella sua speranza,
d’una in altra sembianza
potea levarsi a l’alta cagion prima;
et ei l’à detto alcuna volta in rima,
or m’à posto in oblio con quella donna
ch’i’ li die’ per colonna
de la sua frale vita. - A questo un strido
lagrimoso alzo et grido:
- Ben me la die’, ma tosto la ritolse. -
Responde: - Io no, ma Chi per sé la volse. -

Alfin ambo conversi al giusto seggio,
i’ con tremanti, ei con voci alte et crude,
ciascun per sé conchiude:
- Nobile donna, tua sententia attendo. -
Ella allor sorridendo:
- Piacemi aver vostre questioni udite,
ma piú tempo bisogna a tanta lite. -

Quel’antiquo mio dolce empio signore


CCCLXVI
(Canzone 29a)


Vergine bella, che di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose,
amor mi spinge a dir di te parole:
ma non so ’ncominciar senza tu’ aita,
et di Colui ch’amando in te si pose.
Invoco lei che ben sempre rispose,
chi la chiamò con fede:
Vergine, s’a mercede
miseria extrema de l’humane cose
già mai ti volse, al mio prego t’inchina,
soccorri a la mia guerra,
bench’i’ sia terra, et tu del ciel regina.

Vergine saggia, et del bel numero una
de le beate vergini prudenti,
anzi la prima, et con piú chiara lampa;
o saldo scudo de l’afflicte genti
contra colpi di Morte et di Fortuna,
sotto ’l qual si trïumpha, non pur scampa;
o refrigerio al cieco ardor ch’avampa
qui fra i mortali sciocchi:
Vergine, que’ belli occhi
che vider tristi la spietata stampa
ne’ dolci membri del tuo caro figlio,
volgi al mio dubbio stato,
che sconsigliato a te vèn per consiglio.

Vergine pura, d’ogni parte intera,
del tuo parto gentil figliola et madre,
ch’allumi questa vita, et l’altra adorni,
per te il tuo figlio, et quel del sommo Padre,
o fenestra del ciel lucente altera,
venne a salvarne in su li extremi giorni;
et fra tutt’i terreni altri soggiorni
sola tu fosti electa,
Vergine benedetta,
che ’l pianto d’Eva in allegrezza torni.
Fammi, ché puoi, de la Sua gratia degno,
senza fine o beata,
già coronata nel superno regno.

Vergine santa d’ogni gratia piena,
che per vera et altissima humiltate
salisti al ciel onde miei preghi ascolti,
tu partoristi il fonte di pietate,
et di giustitia il sol, che rasserena
il secol pien d’errori oscuri et folti;
tre dolci et cari nomi ài in te raccolti,
madre, figliuola et sposa:
Vergina glorïosa,
donna del Re che nostri lacci à sciolti
et fatto ’l mondo libero et felice,
ne le cui sante piaghe
prego ch’appaghe il cor, vera beatrice.

Vergine sola al mondo senza exempio,
che ’l ciel di tue bellezze innamorasti,
cui né prima fu simil né seconda,
santi penseri, atti pietosi et casti
al vero Dio sacrato et vivo tempio
fecero in tua verginità feconda.
Per te pò la mia vita esser ioconda,
s’a’ tuoi preghi, o Maria,
Vergine dolce et pia,
ove ’l fallo abondò, la gratia abonda.
Con le ginocchia de la mente inchine,
prego che sia mia scorta,
et la mia torta via drizzi a buon fine.

Vergine chiara et stabile in eterno,
di questo tempestoso mare stella,
d’ogni fedel nocchier fidata guida,
pon’ mente in che terribile procella
i’ mi ritrovo sol, senza governo,
et ò già da vicin l’ultime strida.
Ma pur in te l’anima mia si fida,
peccatrice, i’ no ’l nego,
Vergine; ma ti prego
che ’l tuo nemico del mio mal non rida:
ricorditi che fece il peccar nostro,
prender Dio per scamparne,
humana carne al tuo virginal chiostro.

Vergine, quante lagrime ò già sparte,
quante lusinghe et quanti preghi indarno,
pur per mia pena et per mio grave danno!
Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno,
cercando or questa et or quel’altra parte,
non è stata mia vita altro ch’affanno.
Mortal bellezza, atti et parole m’ànno
tutta ingombrata l’alma.
Vergine sacra et alma,
non tardar, ch’i’ son forse a l’ultimo anno.
I dí miei piú correnti che saetta
fra miserie et peccati
sonsen’ andati, et sol Morte n’aspetta.

Vergine, tale è terra, et posto à in doglia
lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne
et de mille miei mali un non sapea:
et per saperlo, pur quel che n’avenne
fôra avenuto, ch’ogni altra sua voglia
era a me morte, et a lei fama rea.
Or tu donna del ciel, tu nostra dea
(se dir lice, e convensi),
Vergine d’alti sensi,
tu vedi il tutto; e quel che non potea
far altri, è nulla a la tua gran vertute,
por fine al mio dolore;
ch’a te honore, et a me fia salute.

Vergine, in cui ò tutta mia speranza
che possi et vogli al gran bisogno aitarme,
non mi lasciare in su l’extremo passo.
Non guardar me, ma Chi degnò crearme;
no ’l mio valor, ma l’alta Sua sembianza,
ch’è in me, ti mova a curar d’uom sí basso.
Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso
d’umor vano stillante:
Vergine, tu di sante
lagrime et pïe adempi ’l meo cor lasso,
ch’almen l’ultimo pianto sia devoto,
senza terrestro limo,
come fu ’l primo non d’insania vòto.

Vergine humana, et nemica d’orgoglio,
del comune principio amor t’induca:
miserere d’un cor contrito humile.
Che se poca mortal terra caduca
amar con sí mirabil fede soglio,
che devrò far di te, cosa gentile?
Se dal mio stato assai misero et vile
per le tue man’ resurgo,
Vergine, i’ sacro et purgo
al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile,
la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri.
Scorgimi al miglior guado,
et prendi in grado i cangiati desiri.

Il dí s’appressa, et non pòte esser lunge,
sí corre il tempo et vola,
Vergine unica et sola,
e ’l cor or coscïentia or morte punge.
Raccomandami al tuo figliuol, verace
homo et verace Dio,
ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace.

ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace.